Riproponiamo questa conversazione con Corso Salani in occasione dell’omaggio in questi giorni alla Sala Trevi di Roma.

Perché Corso Salani? Perché il suo è cinema personale, unico nel panorama del cinema nostrano. Ha un modo particolare di produrre e raccontare storie, di esplorare la realtà, sia quando lo fa con un documentario sia quando lo fa con un film di finzione, anche perché documentario e finzione si fondono spesso tra loro rompendo i soliti confini dei generi. Regista di confine: non solo perché il suo è un cinema tra documentario e finzione, ma perché di confine sono anche i luoghi scelti e di confine è il modo di produrre. Totalmente indipendente, Salani è quasi produttore di se stesso. Il suo è un cinema fatto da pochi. L’ideale per lui sarebbe girare da soli e, quando non è possibile, si apre a una troupe formata da pochissime persone: cinque – sei al massimo. Lo sguardo acuto, penetrante con cui ti guarda rispecchia l’occhio che sta dietro alla macchina da presa: spesso è realmente il suo occhio a filmare, a volte metaforicamente si sposa con l’occhio di un operatore. 

Parola d’ordine libertà. Questa lunga conversazione è nata qualche mese fa: era febbraio, in via Urbana, centro storico di Roma, in una sera tiepida dello strano inverno 2006-2007 (un po’ primavera un po’ inizio inverno, piovoso più del solito). All’appuntamento dato di fronte allo storico Cineclub Detour, Corso Salani arriva per primo, leggermente in anticipo. Ci accomodiamo all’interno del Detour, rimesso a nuovo. Un po’ di emozione, un pizzico di nervosismo fanno litigare i fili del nostro microfono con quelli della cuffia…  Salani è garbato, un po’ nervoso anche lui: si capisce che non ama rispondere alle domande, essere registrato. La prima domanda, così per rompere il ghiaccio è sul suo percorso produttivo perché in effetti Salani si è autoprodotto i suoi primi film – Zelda (cortometraggio girato in Super8 nell’isola Capraia), Voci d’Europa nel 1989 (tre episodi autoprodotti), Gli ultimi giorni (1991) e Gli occhi stanchi (1996). Fino al 2000, anno in cui inizia a collaborare con Gianluca Arcopinto per Occidente e Palabras. Parallelamente è protagonista de Il muro di gomma di Marco Risi e interpreta Nel continente nero. 

“I primi film erano completamente autoprodotti con il lavoro che facevo in produzione come assistente di produzione in film commerciali. Questo mi serviva sia a produrre i film sia ad imparare un sacco di cose per poi produrli a basso costo… Poi ho iniziato il lavoro d’attore ne Il muro di gomma e Nel continente nero, ma quello che considero il mio vero lavoro è quello di regista. Ora il lavoro si è complicato perché i film non sono più solo di finzione completa, ma sono a metà tra il documentario e la finzione. Rispetto a quando avevo iniziato, non ho cambiato molto la formula produttiva, che è rimasta sempre indipendente: questo mi permette la libertà assoluta di fare i film che voglio.

Quindi è una scelta più che una necessità…

Sì assolutamente una scelta… Oramai… All’inizio chiaramente è stata una scelta forzata, adesso è una scelta consapevole e soddisfatta. Certe volte uno rimpiange un po’ l’eccessiva povertà, ma si va avanti lo stesso…

Lavori sempre con piccole troupe…

Sì, da sempre, ma questo non solo per una questione di costi, anche perché mi trovo molto meglio a lavorare con poche persone che partecipino con la mia stessa intensità al film. Già al momento della scrittura penso a un film, a una storia che si possa realizzare con una piccola troupe (cioè di 5–6 persone) e con attori che si possano appassionare al film con la stessa tensione di tutta la troupe… Questo però non è una privazione, anzi. Lavorare con persone con cui condividere l’esperienza del film o del documentario mi dà molta più forza e convinzione. Nel documentario la troupe è ancora più piccola. Se uno è consapevole dei propri mezzi fin dall’inizio non si hanno particolari problemi a girare, o meglio si trovano gli stessi problemi che si troverebbero scrivendo e realizzando un film commerciale: ti mancheranno sempre tempo, soldi, persone…

Rispetto a quando hai iniziato ora trovi difficoltà maggiori?

Sì. Intanto perché negli anni mi sono sempre più indebitato e quindi ho più difficoltà a trovare i soldi per fare i film. All’inizio poi eravamo tutti ragazzi che dovevano iniziare: era più facile mettere su una troupe e partire all’avventura. Io sono rimasto così, ma gli altri, per fortuna loro, hanno avuto una carriera… Così mettere insieme tempi, esigenze di tutti ora è più complicato. Poi, sono aumentate le spese. È più facile girare in video (quando ho iniziato non si poteva), ma oggi è comunque più caro. Ma si riesce ancora a mantenere i costi dentro cifre abbordabili. Il costo è una conseguenza… Non è che io voglia per forza fare storie a basso costo, ma ormai mi vengono in mente solo storie da realizzare così. Sono storie che si concentrano sui personaggi: non ho così bisogno di grosse strutture per costruire il film.

Come vivi questa scelta di fare film con una serie d’accorgimenti e che poi è difficile vedere, distribuire?

È senz’altro difficile. Ci sono una rete di sale interessate a un certo tipo di cinema,  dove però c’è anche tanto pubblico. Non sono all’interno del circuito normale, quello della normale tenitura nelle sale. Occidente e Palabras sono usciti nelle sale a Roma, Milano, Bologna con una vera e propria tenitura. Occidente andò anche bene, per il tipo di film. Ma stranamente non c’è stato un grande richiamo, nonostante un grosso lavoro stampa, nonostante le critiche siano andate molto bene… Vedendo l’interesse della stampa uno s’immaginerebbe più persone che vadano a vedere questo tipo di film… Forse perché sono film italiani si parte già con una certa diffidenza… I miei film hanno girato parecchio, vengono ancora proiettati dopo anni ed io li accompagno sempre.

Tu hai sofferto per la distribuzione limitata, per il fatto che ci fosse difficoltà a tenerli in sala?

Sofferenza no. Non mi aspetto mai il grande pubblico, non che mi farebbe orrore averlo, ma già nel momento in cui nascono i miei film, so che non ci sarà la coda il sabato sera per vederli. Forse è anche un lavoro difficilissimo distribuirli… La sofferenza, se di sofferenza si può parlare, nasce quando la stessa distribuzione si arrende prima del tempo. Magari ne è pienamente giustificata, erano distribuzioni che avendo lottato su 10-20-30 film, poi a un certo punto si stancano… Ma non essendomi arreso io nel fare il film, mi aspetto che anche loro non si arrendano. Il pubblico di una distribuzione normale non è interessato a questi prodotti. Questi film funzionano nei cineclub con proiezioni di un paio di giorni: qui il pubblico va e devo dire che esce più che soddisfatto.

Arcopinto diceva che oggi c’è una maggiore difficoltà a distribuire, anche per colpa del duopolio Rai/Mediaset (Raicinema-01distribution/Medusa) che è più forte…

Sul duopolio non so, non entro nei meccanismi. Più difficile sì. Forse c’è anche un certo disinteresse generale, forse anche gli spazi sono diminuiti. Poi magari ci sono luoghi dove a sorpresa riempi la sala… Forse è diventato più difficile nelle grandi città: Roma, Milano. Ma questo non è un motivo per tirarsi indietro. Uno cerca di essere coerente nel proprio lavoro. I miei film sono passati anche in televisione. E in qualche modo poi si vedono. Uno fa il film che sente, non riesco a pensare di fare il film che penso che potrebbe piacere al grande pubblico e non a me. La condanna è questa…

Nei tuoi film hai rappresentato storie di personaggi che viaggiano, di stranieri. Come ti senti rispetto all’Italia e al cinema italiano?

Rispetto al cinema italiano sono spettatore, quasi sempre i film che vedo mi piacciono. Non ho un sentimento di distanza o superiorità.

Ti consideri un regista italiano?

No, non particolarmente. Non mi considero italiano perché non mi interessa fare film legati alla realtà italiana: anzi penso che il bello di fare film sia l’occasione per occuparsi di tante altre situazioni diverse. Spero ogni volta di entrare a far parte del paese dove vado a girare, di calarmi nei luoghi dove vado, di appartenere loro… Non ci credo molto a sentire, per una pura casualità, un’appartenenza geografica. Sono nato in Italia per caso…

Quali sono le difficoltà maggiori che incontri adesso nel voler realizzare un film?

Mettere insieme una cifra, anche piccola. Farsi rispondere al telefono è già un problema. La situazione in generale non è positivissima, così non è facile mettere insieme le cose; ma se c’è un progetto a cui tieni veramente, che è questione di vita o di morte il farlo, con tenacia e pazienza alla fine in qualche modo si riesce a farlo… Certo ci si deve preparare a scrivere una storia e magari ad aspettare anni prima di portela realizzare.

Giri in digitale ultimamente: è una scelta?

Sì. Il primo motivo è quello economico. Ma anche perchè mi dà molta libertà e molto materiale. In questi ultimi anni conservo tutto il materiale girato per rilavorarci dopo, per riutilizzarlo per altre cose, lavorandoci a casa. Per esempio con il girato di Palabras ho fatto praticamente un altro film: e questo è stato un regalo dell’uso del digitale. E poi abbatte i costi in modo decisivo.

A cosa stai lavorando adesso?

A dei documentari a basso costo sui paesi al confine con l’Europa. Sono sei episodi che hanno una protagonista femminile che fa da guida: una piccola parte di finzione che guida il documentario. E’ prodotta da Rai Tre – Fuori Orario con la Vivofilm (con cui lavoro adesso) e già puoi immaginare le grandi cifre che circolano… Ma andare da Enrico Ghezzi che ti conosce, ha visto il lavoro che hai fatto, lascia una libertà totale sul progetto senza bisogno di dover contrattare. I paesi che toccheremo saranno Gibilterra, Portogallo, Finlandia, Lettonia, Moldova e Cipro.

A quanto racconti, l’incontro con una normale distribuzione non è stato positivo…

Non ho rivendicazioni con nessuno. C’hanno provato e pagano anche loro una situazione. E’ che uno fa tanti sforzi e poi… Che si può fare? O uno cambia film o…

Si dovrebbe cambiare il quadro italiano?

Il mio compito, se ne avessi uno, è fare un film il più bello possibile e metterlo in gioco… Non saprei come altro intervenire…

Arcopinto ha illustrato una situazione drammatica che ha definito non pessimistica, ma realistica…

icuramente ognuno fa i compromessi che vuole, ed è leggittimo tutto, ma tutti quelli che ora protestano, che parlano di monopolio, di duopolio, sono gli stessi che hanno lavorato per loro. Solo quando una cosa va male nasce lo scandalo e la protesta. Nessuno si è tirato indietro prima dicendo no, tirandosi fuori e rifiutandosi di lavorarci… Ognuno fa quello che crede, ma poi almeno non faccia la lezione morale. Ci sono passati tutti da Medusa Mediaset, Rai e 01 e sono rimasti ben soddisfatti come con Cecchi Gori che c’era prima: tutti ci hanno fatto film. Forse ci si dovrebbe fermare prima.

Chissà, per giovani talenti sarà stato utile…

Va benissimo, ma poi non si recrimini contro chi ti ha fatto fare i film. È vero che c’è il monopolio, ma se tutti ci partecipano… Pochi ne sono rimasti fuori. Dopo non si può parlare da immacolato… Se pensi che il ministro della cultura passa l’ 80% del suo tempo come vice premier, questo ti dice che spazio d’attenzione ha la cultura nel nostro paese… Forse rinunciare all’attenzione dello Stato metterebbe in moto qualcosa…

Il poco spazio dato ad alcuni film condiziona il gusto degli spettatori creando un circolo vizioso che porta verso il basso…

Gli stessi che fanno questi discorsi hanno lavorato con chi ha portato il livello più in basso. Berlusconi era considerato schifoso, ma poi tutti in tv o al cinema c’hanno lavorato… Dopo non puoi lamentarti che il livello s’abbassa, ci hai partecipato anche tu… Forse la gente non ha voglia di vedere film che impegnino troppo.

La gente non vuole leggere perché troppo faticoso, è preoccupante…

Disperante.

Se Berlusconi ti desse un miliardo per fare un film…

È difficile dire di no, ma non è neanche obbligatorio dire di sì. O almeno poi si stia zitti. Non credo che il problema ci sia solo adesso. Le difficoltà ci sono sempre state.

Secondo te c’è un gruppo di registi che s’incontra, si confronta un po’ come avveniva negli anni ’60? O oggi c’è un certo isolamento?

Credo che ci sia un gruppo che s’incontra… ma c’è anche una guerra di ognuno contro tutti. Io vado a vedere quasi tutti i film dei registi italiani, a parte quelli che so che non mi interessano, ma non credo che ci sia tutto questo scambio nell’andare a vedere i film degli altri. Ognuno è impegnato sul proprio lavoro. Nel gruppo di registi indipendenti italiani che lottano per un cinema diverso, RING, ognuno di loro alla fine  tende a fare il proprio film. Sono andato anche al convegno di Pesaro, ma l’80% degli interventi di registi e attori era un bollettino ministeriale fatto di codici e comma del ministero, interventi burocratici…

Abbiamo rivisto Corso Salani a distanza di mesi alla Sala Trevi, in un incontro con il pubblico organizzato dal RomaDocFest (Luca Franco e Sebastiano Bazzini) sul suo cinema documentario, a cui hanno partecipato anche un paio di suoi collaboratori.  

 Il cinema di Salani racconta di personaggi femminili di cui dichiara di essere geloso. “E’ per questo che il personaggio maschile con cui entrano in relazione voglio interpretarlo io, altrimenti preferisco rimangano donne isolate”. Il suo cinema è quasi un atto d’amore verso le donne. La scelta delle attrici avviene per istinto. “Affido il personaggio a chi penso lo possa fare. Lavoro con attrici che recitano in una lingua che non conosco, così fino a che il film è finito e avviene la traduzione non so se hanno rispettato il testo”. Il produttore con cui lavora da ben sette film conferma lo sguardo speciale verso le donne: “Salani sarebbe un ottimo regista di porno (non so se hard o soft) perché è il migliore a filmare il loro corpo nudo, anche se a volte si autocensura”.

Dal pubblico viene spontanea la domanda sulla distribuzione, così difficile, dei suoi film. “I miei film hanno una lunga vita sotterranea. Continuano a essere proiettati dopo mesi e anni, forse anche perché non hanno un legame stretto con la realtà. Per esempio Gli occhi stanchi (1996) è stato girato con una troupe di quattro persone, con  pochi soldi e in pochi giorni: ovvio che così non punti fin dall’inizio a una distribuzione che riempia le sale. Ma ha avuto una lunga vita; di proiezione in proiezione venivo invitato ad accompagnare il film. Per me è già una conquista arrivare a fare il film”. Occidente, invece, ha avuto una diversa storia distributiva? “Sì, Occidente ha avuto una vera e propria distribuzione: ho girato per sei mesi l’Italia al seguito del film. E’ emozionante vedere come viene accolto il film dalla gente”. Nel tuo cinema s’intrecciano documentario e finzione: dov’è la linea di confine? “Non vedo una separazione netta. Per me fare documentari non è un ripiego o un riempitivo tra un film e l’altro. Lo spunto dei miei film sono un personaggio, un luogo che mi affascinano narrativamente, magari anche per lo squallore. Sto lavorando a una serie sui confini d’Europa: al centro del racconto c’è un luogo e un personaggio femminile. Per esempio in Lettonia la protagonista è un’attrice “vera” che prova dei monologhi: la cosa che mi ha colpito di più è che lei raccontava il suo paese in modo molto molto vicino all’idea che mi ero fatto io della Lettonia standoci in quei giorni… Non credo nella divisione dei generi. Per esempio l’inizio di Occidente, classificato come film di finzione, è un piccolo documentario. Si vedono le immagini di Bucarest che avevo ripreso durante la rivolta e si sente fuori campo la voce – vera – di una ragazza rivoluzionaria che racconta la sua storia. Non avrei mai pensato di cenare con una vera rivoluzionaria che portava a tavola il moschetto… Pensando alle diverse strade che poteva prendere dopo la rivoluzione, ho immaginato come sarebbe stata la sua vita in occidente: da qui il seguito del film… Quelle riprese a Bucarest hanno condizionato il mio lavoro”. Per capire meglio il singolare modo di lavorare di Salani, la parola passa al suo attuale produttore, Pavonessa, della Vivofilm : “Si è produttori di confine a tutti gli effetti. Corso chiede al produttore molto poco fino a che il film è finito: è capacissimo e ha bisogno di preparare da solo i propri film. A lui serve un telefono, un fax e un computer e l’itinerario di viaggio è nelle sue mani, il cast è nelle sue mani.” Dal pubblico qualcuno suggerisce di usare come strumento di distribuzione internet: sia Salani che Pavonessa sembrano contrari all’idea. “Le critiche più feroci le ho avute proprio su Internet, anche al limite dell’offensivo. Non mi va di dare in pasto alla rete un mio film, di scomparire su internet”. Continua il produttore: “Per una piccola casa di produzione non c’è ancora la possibilità di garantirsi il copyright. I film di Corso hanno una risposta straordinaria nei festival, sono andati su Rai Tre: la visibilità non è mancata. Ho avuti film finiti rimasti nel cassetto che non sono mai passati in tv e non sono stati neanche selezionati a un festival”. Salani è per l’indipendenza dai fondi ministeriali: “Meno gli autori si rivolgono al Ministero, meglio è per tutti. Quando si ha l’urgenza di fare un film, quando devi fare il film altrimenti muori (ed io provo spesso questo) meglio dipendere da se stessi, anche se con un solo centesimo rispetto a quello che avresti avuto dal Ministero, ma a costo di chissà quali attese…” Continua Pavonessa della Vivofilm: “Per il documentario ci sono due canali produttivi: o History Channel della Fox o Rai Tre. Rai Cinema è entrato in Il mio paese di Vicari. Quello che manca è un sistema che metta insieme fondi pubblici, privati, regionali, distribuzioni, come invece avviene in Francia, Svizzera, Germania… Per noi la vera sfida è vincere nei canali tradizionali: tv, sale, librerie… E’ dare a un film la possibilità di una lunga vita, in modo che non sparisca nel giro di una decina di giorni. Sono convinto che un pubblico ci sia, anche se vogliono farci credere che questo pubblico non esiste. Imatra è stato proiettato a Locarno di fronte a 1000 persone che sono uscite soddisfatte… Il mio paese ha avuto 15.000 spettatori nel tempo”.

L’occasione di filmare è per me – dice Salani- occasione per nascondermi nel luogo dove giro il film, per nascondermi dietro al personaggio. Lavorare con uno o due collaboratori ti permette di entrare senza disturbare, di cogliere la vita quando accade. Diventa naturale entrare in scena. Solo in Occidente ho lavorato con una troupe di venti persone, che infatti erano distaccate, mentre tu metti tutto te stesso. Lavorare con pochissimi collaboratori fa sì che anche loro partecipino al film con la tua stessa intensità. Ho bisogno di avere un controllo assoluto perché il film è parte di me. Così se le cose non vanno me la prendo con me stesso. E’ capitata, per esempio, l’occasione di seguire Nichi Vendola durante la campagna elettorale: ero lontanissimo da quell’ambiente. Non avevo nulla da dimostrare. Sono partito da un personaggio. Ero da solo con la telecamera. Sono state filmate immagini che normalmente non vengono mostrate. Credo di aver ritratto l’umanità di Vendola”. Spiare un personaggio, riprenderlo per fare un documentario è una sorta di reality, dov’è la differenza? “I reality dovrebbero avere una sola edizione. La realtà è bella da filmare, senza cadere in volgarità. Tre donne in Europa (2004) potrebbe far parte della categoria reality. Io non faccio distinzione tra realtà e finzione. Per me contano le immagini che suscitano interesse in me e spero anche negli altri”.

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4 Replies to “IL CASO SALANI – Conversazione con Corso Salani”

  1. Corso Salani è un grande
    per fortuna l’altra sera ho messo rai tre ed ho visto
    imatra
    sono già un suo fan
    mi è piaciuto troppo il modo in cui era fatto

  2. Ho visto di recente il suo documentario Vite possibili.Mi ha colpito la straordinaria intuizione di filmare non secondo la concretezza delle immagini,ma per l’impatto che esse suscitano nell’animo dell’osservatore tutt’uno con l’artista proponente. Paesaggi e figure umane,al di fuori del tempo e dello spazio, hanno la caratteristica di parlare lo stesso linguaggio.

  3. MIRNA è un dono, ecco cos‘è l’ultimo film di Salani,o così l’ho vissto. il messaggio chiarissimo, misterioso ed antico, la poetica delle immagini intima ed essenziale, gli sguardi, i sorrisi, le corse ed i pianti nel lento trascorrerre della vita. Vi ho visto non solo un film o un documentario, ma una storia che prepotentemente vuole venire al mondo, un atto d’amore inestinguibile, un desiderio “alto” che faremmo male a voler, in ogni occasione, definire…
    é come gettare uno sguardo su un’altra vita-storia-avventura che per quanto diversa dalla nostra, attimo per attimo, trova aderenza con la nostra vicenda umana.

  4. Grazie per questa splendida conversazione. Viene fuori bene l’alterità di Corso Salani rispetto ai “cinematografari” e la sua qualità umana.

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