Ecco – mi dicevo guardando i primi minuti de Il pezzo mancante, il documentario sulla famiglia Agnelli nelle sale (poche, ovviamente) da metà giugno – che Giovanni Piperno, documentarista serio e rigoroso, di comprovata sensibilità “popolare” (L’esplosione, Cimap! Cento italiani matti a Pechino), si è lasciato anche lui conquistare dalla figura elegante e raffinata, di fascino “rinascimentale”, di Gianni Agnelli. A otto anni dalla morte, riflettevo, il mito catalizzatore dell’Avvocato continua a condizionare le narrazioni che ne incrociano la rotta, inducendo uno come Piperno a mettere in campo attorno al personaggio in questione un abbondante repertorio, oltre a interviste da lui realizzate a parenti e amici di un tempo, avvicinandosi pericolosamente all’agiografia. La forma levigata del film, la ricercatezza stilistica insolita se raffrontata allo “sporco” vigente nel documentarismo (soprattutto italiano) contemporaneo, non facevano che confermare la mia impressione e acuire lo “scandalo”: Piperno ha fatto, su un aristocratico, un film aristocratico.
Poi, però, pian piano ho capito.
Dedicando la prima parte de Il pezzo mancante all’Agnelli per eccellenza, il regista romano non stava rendendo un tributo al simbolo, stava piuttosto mettendo in scena uno specchietto per le allodole. Piperno parte dall’aspetto pubblico della famiglia, lo “stile-Agnelli” incarnato dall’Avvocato, per offrire al pubblico un radicamento, per tracciare i confini di un territorio condiviso. Contemporaneamente, come in un sapiente mystery, la narrazione accumula piccoli elementi dissonanti, tracce destabilizzanti che producono lievi smottamenti all’attenzione dello spettatore, dirottandola progressivamente verso lidi insospettati. Tra filmati aziendali Fiat, testimonianze odierne, enigmatici (e bellissimi) camera-car negli storici luoghi agnelliani di Torino, pianisequenza godardiani (British Sounds) dentro la fabbrica vuota, la dinastia assume le sembianze di un magma indefinito, dal quale però due figure prendono forma attraverso il racconto.
Giorgio Agnelli era uno dei sei fratelli di Gianni, era affetto da schizofrenia e perciò fu internato in una clinica svizzera alla fine degli anni ‘50. Lì morì nel 1965, a trentasei anni, avviandosi a un destino postumo di oblio. È il membro della famiglia di cui nessuno parla, il fratello che Gianni, in pubblico, non ha mai ricordato: “ho un solo fratello maschio”, gli si sente dire in una vecchia intervista. Edoardo Agnelli era il primogenito dell’Avvocato, l’erede designato alla successione, peccato che il capitalismo non facesse per lui, più interessato alla filosofia e alla spiritualità. Assiduo frequentatore dell’India e dell’Iran, probabilmente cocainomane, antinuclearista ed ecologista, si uccise a quarantasei anni, scegliendosi una morte “scomoda” per la famiglia, tanto quanto lo fu la sua vita.
Ecco che la direzione del film si rende visibile, e con essa il progetto poetico/politico di Piperno. Nel grande e luminoso affresco familiare, l’Avvocato siede regale in primo piano, occupa il centro dell’attenzione spettatoriale, ma Piperno ci spinge a guardare allo sfondo, ai contorni, alle zone d’ombra che ogni quadro – ogni famiglia – inevitabilmente contiene. Alle spine nel cuore, direbbe Michel Gondry. La sistematica rimozione di quelle zone è ciò che consente la perpetuazione della narrazione pubblica e “autorizzata”, ostruendo con decisione le altre piste possibili. La parabola agnelliana assume dunque accenti universali, diventa addirittura, per il regista, la metafora possibile della storia italiana del Novecento: ingigantire fino al mito un personaggio, relegando tutti gli altri al ruolo di comparse (o di s-comparse), significa delegargli senza condizioni un destino collettivo, abdicare alla responsabilità.
Il pezzo mancante prende le mosse da Casa Agnelli. Storie e personaggi dell’ultima dinastia italiana, in cui Marco Ferrante ha per primo portato l’attenzione sui vuoti della storia degli Agnelli, intaccandone la proverbiale impenetrabilità. A partire dal libro, Piperno ha poi lavorato in sceneggiatura insieme a Giulio Cederna e ad Antonio Pascale per i testi. Complessivamente, un lavoro di quasi tre anni, del quale il regista non ha nascosto la laboriosità e la fatica, a tratti frustrante. In parte, a causa di ostacoli “esterni” posti al suo lavoro: l’iniziale rifiuto della famiglia a collaborare, per esempio, lo aveva quasi indotto ad abbandonare l’impresa. In parte, ha ammesso lui stesso, ha scontato una difficoltà a trovare il bandolo della matassa. Insomma quel percorso di senso che Piperno indica allo spettatore è stato, prima, il suo medesimo. Forse è per questo che la consapevolezza infine ottenuta e proposta sullo schermo appare più vivida e convincente.
Bella recensione Armando, complimenti.