Chissà chi si ricorda di The Descent- discesa nelle tenebre, horror inglese di un po di anni , in cui un gruppo di donne escursioniste si immergevano nelle cavità sconosciute della catena dei Monti Appalachi, nel nord degli Stati Uniti e, rimaste intrappolate, venivano attaccate e uccise da mostruose creature antropomorfe , riemerse dalle viscere di una qualche era primitiva o dimensione parallela. Ben altro è l’impatto che suscita la visione dell’Abisso di Bifurto, una voragine di 683 metri , situato nel Parco Nazionale del Pollino. una distesa di terra arcaica e incontaminata, situata a cavallo di due regioni, come la Basilicata e la Calabria, che mantengono ancora una parte del mistero e dell’incanto selvaggio e brutale della Natura al di fuori dei rassicuranti percorsi costruiti per colpire l’immaginazione del turista e non del viaggiatore ( il cui errare, come diceva Paul Bowles ne il te’ nel deserto, aveva un inizio e mai una fine o una programmazione); luoghi che si prestano ad essere lo scenario pulsionale di un film dell’orrore, appunto, o un ‘opera di immagine-movimento , seguendo il pensiero di Gilles Deleuze, com’è questo film di Michelangelo Frammartino, Il buco. Come già Le quattro volte, il più paradigmatico lavoro dell’autore milanese, il movimento è la vera linea narrativa attraverso cui seguire il racconto di qualcosa che , concentricamente , si sviluppa a macchia , in corrispondenza con la triade dei piani di ripresa deleuziani: la percezione nel campo lungo di un luogo geografico e paesaggistico, l’affezione nel primo piano di una dimensione esistenziale e sociologica, il campo medio nell’azione della ricerca speleologica compiuta dagli studiosi che scesero nelle viscere di quella terra.
I cicli vitali degli uomini , degli animali e della natura che scandivano il tempo e lo spazio ne Le quattro volte, si intersecano ne Il buco con linee verticali che si muovono verso l’alto e verso il basso. I contadini radunati davanti alla televisione che racconta nella strettoia in bianco e nero dello schermo bombato di un tv d’epoca l’inaugurazione del grattacielo Pirelli nel 1960, si perdono nell’immagine dell’ascensore che sale ogni piano di quel colosso di cemento e modernità, fino a toccare una punta dell’iceberg che è però gia virtuale, distante, lontana dalla dimensione terrena e rocciosa dei volti rugosi e impermeabili allo scorrere nevrotico e febbricitante del progresso. Cominciava il boom economico, la crescita dei consumi ,la tecnologia entrava nelle case , per interposto il buco del tubo catodico, ma ci sarebbe stato un punto di rottura, di collisione , di crollo, un nuovo affondamento del Titanic da parte di quella punta dell’iceberg o , più prosaicamente, il ripiegamento su stesso del sistema capitalistico e imperialista, di cui le immagini di due altri celeberrimi grattacieli, questa volta abbattuti e non inaugurati, le torri gemelle sono il simbolo speculare e tragico di una sconfitta, di una resa di fronte all’imponderabile legge del contrapasso di un potere smarrito nella bramosia e insensibile al “dettaglio” del fattore umano. La forza dell’evocazione di quel momento della storia ha un controcampo nel movimento opposto compiuto dagli speleologi che scoprirono , in una terra prevalentemente abitata di pastori, questo cratere inedito nella terra e vi si calarono alla ricerca di una profondità sempre maggiore, di un contatto il più possibile indietro nel tempo con i segni primigeni e nucleari dell’umanità , da cui è partita poi la corsa verso la dimensione liquida e aerea dell’altezza . In questo sguardo bidirezionale, c’è il taglio dell’orizzontalità del gregge delle pecore e del loro custode, una sorta di impermeabilità e imperturbabilità alle suggestioni evocative del presente e del passato, che in qualche modo ne è sia la cesura che il trait d’union.
I pastori furono infatti i testimoni di quell’impresa cosi importate ed epocale nella storia della geologia, ed è la loro presenza silenziosa e fisica , il loro vivere e consumarsi e morire in quel contesto e anche dentro quelle grotte a dare un’indicazione della loro esistenza agli speleologi; e il merito , anche etico, della regia di Frammartino è quello di non ridurre o mettere in secondo piano il tempo, il corpo e lo spazio dell’anziano pastore malato. Non è, citando il titolo originale di un film di Joseph Losey, Figures in Landscapes, una figura stagliata su un paesaggio e prestata a un gioco al massacro , ma ne emerge pulsante, reale , plastica con una valenza diametralmente contraria a quella dei mostri prevaricatori e distruttivi del The Descent citato all’inizio di questo pezzo (volendo continuare su un tale, audace parallelo): non distrugge ed ostacola, ma accompagna la scoperta e restituisce una prospettiva; un ancoraggio concreto alla vertigine che suscitano in particolare le riprese addosso ai corpi degli speleologi attaccati alle funi e immersi nell’oscurità delle pareti rocciose squarciata solo dalle torce dei berretti. Un gesto che ha la funzione di riportare letteralmente a galla, come nell’immagine dell’apparizione di un frammento cartaceo della rivista Epoca, nome in questo caso quanto mai obliquo e fuorviante, visto che siamo immersi nella dissoluzione delle categorie di presente, passato e futuro , senza più alcun punto di riferimento, in bilico sopra una dimensione che quanto più rivela, tanto più cela, e ci invita a togliere strati; come i sette veli che,secondo la tesi di un vecchio, e molto datato, melò psicoanalitico inglese degli anni ’40 (Settimo velo appunto, di Compton Bennet )ci separano dall’origine della nostra vera natura, della ferita da cui è stata generata ogni nevrosi e sovrastruttura contemporanea e urbana, distante dal nucleo originario dello stato delle cose.
La forza della suggestione metacinematografica de Il buco non è solo quella di travalicare l’osservazione per rappresentare il processo di creazione e produzione delle prime immagini e dei primi immaginari, quelli della grotta platonica per intenderci; d’altronde da questo punto di vista il tema è ormai quasi intoccabile dopo l’approccio filologico e ossessivo di Werner Herzog in Cave of the forgotten dreams,che creava anche una correlazione perturbante tra il dettaglio del segno e l’assolutezza della visione, il particolare e l’universale, la singolarità del gesto creativo e la collettività del sapere in cui si imprime e si tramanda, come una sorta di DNA iconografico da cui parte ogni ricerca della visione.L’atto consapevole e volontario di illuminare il buio della caverna è la necessità ontologica di confrontarsi con i rimossi della psiche come l’identità, l’appartenenza, la morte, l’immanente e l’eterno. La comunità di contadini e pastori che vivono in quella valle diventa anche la proiezione di quel caotico, primario , indefinito inconscio “partorito” non a caso da una forma circolare, in discontinuità con il monolite fallico del grattacielo milanese che annunciava una nuova era, senza riuscire a oscurare,cancellare o primeggiare quello che c’era sempre stato e che aspettava di essere rivelato: anche seguendo linearmente la cronologia degli eventi , il Bifurto è stato infatti individuato nel 1961 , un anno dopo il battesimo del Pirellone, ed esprime la necessità di andare a cercare le fondamenta e ripartire in un viaggio al contrario da quel punto, non più con la tracotanza e la spavalderia di voler conquistare lo spazio esterno con le linee e le geometrie monolitiche di una mentalità raziocinante ; i corpi sospesi in aria e avvolti dalle pareti a spirale delle grotte restituiscono la percezione di un tempo e di uno spazio continuamente colti nel momento emozionate della loro epifania , in particolare ai nostri occhi incancreniti nella cataratta di un immaginario ormai saturo di schermi di ogni formato e contenuto .
E , per tornare a Deleuze , Frammartino tenta, e spesso riesce, a mettere in atto un assunto del filosofo francese rispetto al movimento: la capacità di pensare la produzione del nuovo rispetto ad una materia che in continuazione nasce e muore dalla luce e dal buio.