Ida, a stare ai fatti, ha veramente molti pregi. È bella, è profonda, è ebrea ed è sola. Forse alcuni potrebbero non apparire dei pregi, ma nel film lo sono. Lo sono perché concorrono a creare un’armonia compositiva che ha del miracoloso, e forse l’unico difetto del film è proprio questa perfezione, che ha quasi dell’innaturale. Ma obiettivamente non è giusto cercare a tutti i costi un qualcosa di stonato nella perfetta opera di Pawel Pawlikowski, anche se un piccolissimo tarlo  continua il suo lavoro di scavo nella mente di chi ripensa il film.

Si tratta di  un classico, un’opera senza tempo,  in un bellissimo bianco e nero con pause lunghe, inquadrature e tempi di ripresa impeccabili. Ed è forse proprio la percezione apparente dell’assenza di un qualsiasi elemento di contemporaneità a sconcertare,  il film sembra girato mentre gli avvenimenti accadono, connotato dal forte realismo intriso di malinconia e poesia che quei tempi e quel modo di fare cinema hanno segnato . Esemplare, ad esempio, è lo scorrere essenziale dei titoli di coda, una lista infinita di nomi polacchi che sono anche esteticamente validi a vedersi, trasmettono l’immagine di un mondo.

I quattro elementi indicati in apertura come pregi di Ida sono anche quelli fondamentali della composizione tesa alla ricerca di un senso universale, che sembra voler essere definito in modo univoco; e questa forse è un’altra considerazione per ripensare il film nel senso del tarlo nella mente che stuzzica e libera.

La bellezza -pura immaginazione estetica, immanente nella costruzione mentale di un mondo accettabile, è la categoria che guida e ispira, è il tema dominante dell’opera, e la attraversa senza  mai abbandonarla, senza scomparire, ora esaltando un tema laterale ora riproponendo la sua potenza espressiva, la stessa struttura compositiva che avrebbe un’opera musicale.

La profondità –la consapevolezza, l’intelligenza di sé, che dialoga con la bellezza e a tratti la stimola a tratti vi si contrappone, comunque arricchendola nel confronto, un confronto in un certo senso kantiano.

L’ebraismo -come pratica condizione umana della persecuzione, l’errare alla ricerca del mondo e di se stessi, con la coscienza di essere dei privilegiati interlocutori di Dio, e proprio a causa di questo binomio privilegio/condanna la sofferenza strutturale che hanno in sé contiene la promessa del riscatto.

La solitudine -altra grande condizione umana, universale e costitutiva dell’evento epifanico della Narrazione, dimensione che tesse la danza corale con gli altri elementi, con la sua particolarità di stato, e in un certo senso danza da sola.

Che posto assegnare, in questo quadro così nettamente delineato, alla fondamentale presenza della sconfitta, dell’essere umano sconfitto, e in questo caso, e non a caso, una donna? Sì perché in questo composizione si inseriscono prepotentemente il desiderio, e la determinazione, che spesso sono destinati alla sconfitta. Qui assumono le sembianze di Wanda, sorella della madre di Ida, donna moderna e determinata, impegnata nella lotta dell’esistenza per l’esistenza.

Ma è bene riprendere i fili  della storia, dei fatti e dell’epoca in cui si svolsero.

Siamo negli anni ’50 in Polonia, in pieno comunismo. Wanda, la zia di Ida,  è una donna magistrato, comunista, una donna forte e apparentemente dura che ha combattuto contro i nazisti abbandonando il figlio. Da lei si recherà Ida, in procinto di prendere i voti in un convento dove è vissuta da quando piccolissima, aveva perso i genitori in un modo poco chiaro. È invitata ad andare dalla zia dalla madre superiora quasi contro la sua volontà, poiché  lei sembra voler non conoscere la sua storia.

L’incontro immediatamente rompe le catene dell’ipocrisia: Ida è ebrea, Wanda glielo getta direttamente in faccia, e le getta in faccia il mondo, il suo mondo, fatto di uomini, di alcool e di durezza -la chiamavano Wanda la sanguinaria e ha mandato a morte diversi uomini.

Ida non ne è turbata, la sua bellezza la protegge, sembra quasi saperlo.

Wanda accoglie la richiesta Ida di andare a cercare la tomba dei genitori e acconsente di portarla là con la macchina, in fondo è sua nipote, anche se sembra non abbia molta voglia di ripercorrere il passato, ma ormai la bellezza ha penetrato la corazza che la mente ha costruito inutilmente per preservare il sé, per non fargli affrontare l’assenza del  senso delle azioni umane.

Il viaggio, l’andare per il mondo, la compenetrazione tra le due anime ha inizio. Gli alberghi squallidi, l’incontro con i girovaghi, con la musica e gli artisti, con la passione, forse; e di contro la percezione della bellezza che è anche purezza e che dona i suoi frutti poetici, provoca la trasformazione, il mutamento delle coscienze.

Scoprire che i genitori, durante la persecuzione nazista, sono stati uccisi dai contadini vicini per rubargli casa e beni non scuote più di tanto Ida, che sembrava quasi saperlo, né Wanda, che lo sapeva certamente, come sapeva che suo figlio, ucciso nelle stesse circostanze, è stato ucciso anche da lei, che lo aveva abbandonato per lottare con i partigiani.

Sembra quasi che Wanda si sia voluta infliggere la punizione che lei stessa, dura dispensatrice di condanne, pensava di meritarsi, e vuole anche che ad infliggerla, ora, sia la bellezza e l’innocenza.  Così, nel momento della massima consapevolezza tra le due donne, disvelata dal loro confronto, fisico e simbolico, affiora la morte. E allora…

Un bellissimo film, un film in cui il tarlo non smette il suo lavoro.  Il senso universale della vita, definito in modo univoco, è bloccato e senza possibilità di ulteriori interrogativi. E anche questa è una caratteristica della vita che le conferisce senso e verità.

 

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