La Béart batte con forza e velocità le dita su una macchina da scrivere, quasi fosse presa da un’energia segreta che le impedisce di trattenersi. È la prima immagine de I testimoni. L’attrice francese – nota non solo per il suo lavoro ma anche per aver sposato la causa degli immigrati clandestini e poi quella delle lesbiche, nonché per essersi rifatta le labbra che ora non passano inosservate – interpreta il ruolo di una scrittrice di fiabe in crisi. Le sue difficoltà creative coincidono con la nascita di un figlio, quella che si direbbe una gravidanza non del tutto accettata. Il marito è un poliziotto magrebino apparentemente più attento di lei nella cura del piccolo. È una coppia “libera”: stanno assieme senza obblighi di fedeltà. Non sono solo loro due i protagonisti e nemmeno sono il centro della storia. Però ci sono due caratteristiche in loro che tornano negli altri personaggi e nella composizione del film. La prima è il ritmo con cui è girato, quel battere veloce sulla macchina da scrivere – precipitoso, privo di dubbi e perplessità – che coincide col tempo con cui sono scandite le scene e le scelte. La seconda è una riflessione che Téchiné porta avanti: il rapporto tra sesso e morale. Con questo non intendo dire che esprime dei giudizi o che abbia un atteggiamento moralistico. Non si tratta di ciò. È più un modo di lavorare sulla messinscena che lascia allo spettatore il giudizio. Insomma ogni personaggio è inevitabilmente portatore di una morale.
Facciamo un esempio per capirci. Adrien, medico e amico di famiglia, va a trovare Sarah, l’amica scrittrice. Prima ancora di entrare dentro casa sente piangere il bimbo con forza. Chiama più volte la donna e non riceve risposta. A questo punto entra dentro casa, consola il piccolo nella culla e poi trova la mamma in preda ad una fase creatrice con i tappi nelle orecchie che scrive. La scena non dura molto. Adrien fa appena in tempo a dirle: ma che fai? La risposta è breve: non riuscirebbe a scrivere se dovesse stare dietro al bambino. Poi si cambia subito argomento. Lo spettatore ha nelle orecchie quel pianto e di seguito la motivazione di Sarah. Dunque da una parte l’esigenza morale di curare un essere umano inevitabilmente bisognoso delle attenzioni di un adulto, dall’altra il desiderio incontenibile di realizzare un progetto artistico. Questa dialettica di posizioni è espressa più volte, e meglio si concretizza in quelle scene dove il sesso ha un ruolo esplicito, magari senza l’uso della parola. Tuttavia la scena appena sopra descritta mi sembra particolarmente rivelatrice. Infatti Sarah non vuole più scrivere fiabe, ed è ora alle prese con un romanzo per adulti intitolato: Eros. Ed è così intensamente catturatra da “Eros” da non sentire e non vedere null’altro. In questo modo – almeno stando alla mia interpretazione – l’autore pare suggerirci che l’impulso di eros/sesso è simile a quello della crezione artistica. Entrambi – sia l’espressione artistica che le passioni della vita – non possono essere contenute: dominano chi ne è sottoposto. Con un’unica differenza, nella vita ci si trova di fronte a scelte che hanno conseguenze anche su altre persone.
Tèchiné mi sembra che lavori in questo modo. Ne I testimoni inoltre c’è il tentativo di fare memoria dell’esplosione dell’Aids negli anni Ottanta, quindi di risollevare dall’oblio un periodo distante anni luce dall’oggi, dandone un ritratto storico e sociale. Il film è diviso in capitoli. All’inizio ci sono “i giorni felici”, periodo in cui la malattia mortale non ha sferrato i suoi terribili artigli, ed è in queste circostanze che appare il giovane omosessuale Manu (una sorta di Ninetto Davoli con la grazia del sorriso sempre sul volto). Sia Mehdi (poliziotto magrebino sposato con Sarah) che il medico Adrien si innamorano del ragazzo. Arrivano poi i giorni della “guerra”, quando oramai il morbo ha fatto irruzione nella loro vita con la malattia di Manu. Arriva infine anche la morte. A proposito di quegli anni il regista ha detto: “Sento di essere sfuggito al mio destino e questo mi ha dato lo stimolo per fare questo film. Altrimenti si tratterebbe solo di un’astratta ambizione storica”. Da quanto detto finora si capisce che non si affida certo alla psicologia, l’autore. Predomina l’azione. I protagonisti non si fermano mai, la vita continua inesorabile. L’estate successiva Manu non c’è più. Al suo posto un altro ragazzo. Come per “miracolo” la vita sembra avere la meglio sulla morte.
la morale qui fa una brutta fine, però. Io ci ho visto da una parte un personaggio, il poliziotto, che vive e che sta attaccato alla realtà, cercando di non sottrarcisi e rispondendo agli accadimenti (l’eccitazione intensa prodotta dall’avvicinamento casuale dei corpi, non intenzionale). Dall’altro la tipa onnipotente e il moralista Adrien, due tipi che potrebbero appartenere alla lunga lista dei “vampiri”: lei con la sua scrittura, alimentata dagli “esperimenti”, piuttosto che esperienze, in cui si mette (il bambino, il rapporto con l’algerino); lui con la sua cecità di fronte al rifiuto amoroso del ragazzo, che lo porta a cercare gratificazione nell’interpretare la figura del protettore-chirurgo, salvo lasciarsi andare un po’ alla fine con l’americano, un tipo che agisce senza farsi troppi problemi.
Due scene emblematiche, secondo me:
-il poliziotto e Adrien si affrontano e il secondo lo accusa di essere un uomo in fuga, che fa tutto quello che vuole salvo non assumersi la responsabilità delle proprie azioni (perchè in effetti è uno che agisce, fa il poliziotto..), disinteressarsi delle conseguenze, l’altro gli risponde che ci sono delle regole, la Legge, che lui fa rispettare, mentre il resto lo vive navigando a vista, e assumendosi, altrochè, le responsabilità (con il bambino, con Manu, con la moglie nella scena del preservativo). Adrien il medico, venerabile portatore di una morale superba e mortificante, dopo questa accusa cosa fa? Venuto a conoscenza della malattia mortale di Manu, amante del poliziotto, non dice a quest’ultimo del rischio del contagio, accampando come scusa la volontà del ragazzo (che è solo paura e vergogna, e che avrebbe meritato ben altro consigliere). Ora, mi chiedo, ma se anche all’epoca la legislazione non obbligava il medico ad informare dei rischi gli amanti conosciuti del malato di Aids, ecco, la famosa “morale” non doveva obbligarlo ad informare il poliziotto comunque invece dii farsi prendere dalle pulsioni aggressive dell’amore e dall’ossessione per il ragazzo? Stare sulla realtà e adattarcisi per quello che si sente vero, attraverso le rivelazioni del corpo magari (il poliziotto e Manu), piuttosto che per il tramite delle teorie onnipotenti della tipa o delle idealizzazioni cieche e mortifere e superbe anch’esse di Adrien. – Lei non avverte il compagno del desiderio di Manu di dare un respiro più ampio alla propria breve esistenza attraverso la possibilità di vedere raccontata la propria storia di vita, un passaggio di testimone in qualche modo, certificato dal bacio tra i due. Alle proteste del compagno-poliziotto lei semplicemente fugge in un paradiso estetizzato, i colori sgargianti, della casa al mare. Non agisce, o meglio, agisce solo in funzione del “compito alto”, la scrittura, che si è prefissa.
Direi che le opposizioni possono essere quelle tra libertà e possesso, realtà e ideale, vita e morte, azione e preordinazione.
La Beart davvero sgradevole, tanto il suo personaggio quanto il suo corpo (da pasionaria nelle banlieue a compagna dell’algerino poliziotto.. uno scherzetto di Techiné?). Il film bello. Ciao.