Due film apparentemente lontanissimi, geograficamente e non solo, entrambi presentati a Venezia e già usciti nelle sale italiane, pongono allo spettatore interrogativi sorprendentemente simili.
Ivano De Matteo(I Nostri Ragazzi) e Kim Ki-Duk (One on One) impongono una riflessione sul senso della giustizia e della vendetta, sulla colpa, sul delitto e sul castigo.
Entrambi i film si aprono con un omicidio. Nel caso del film italiano l’evento è, per così dire, marginale, nel senso che la trama andrà di lì a poco da tutt’altra parte. Serve però ad introdurre la vita, le azioni e le opinioni di due dei protagonisti della storia, i due fratelli interpretati da Luigi Lo Cascio e Alessandro Gassman. Dalla prima scena del film del cineasta coreano scaturisce invece una catena di eventi che si dipanerà – forse – soltanto nel finale. Massimo e Paolo (Gassman e Lo Cascio) sono l’avvocato che difende l’assassino, e il pediatra che ha in cura il bambino, figlio della vittima, rimasto ferito nella sparatoria fatale. Durante le cene rituali con le rispettive consorti si pungono, si beccano e si rinfacciano i rispettivi caratteri: uno pragmatico e senza scrupoli, l’altro idealista e coscienzioso. Finché i figli adolescenti dei due (un sedicenne solitario e una ragazza un po’ più grande e popolare) non vengono incastrati da una telecamera di sorveglianza nell’atto di uccidere di botte una homeless – evento che costringerà i genitori a cercare insieme una soluzione. L’atmosfera de I Nostri Ragazzi ricorda vagamente quella del recente Il Capitale Umano di Paolo Virzì, sebbene con un’analisi dei personaggi adulti forse meno spietata, e sicuramente meno incisiva. E il meccanismo un po’ prevedibile del ribaltamento dei ruoli tra Paolo e Massimo, in fondo, non toglie spessore alle questioni messe sul tavolo: come convivere con un tale segreto, o con il senso di colpa? Come seguire la “legge morale”, responsabilizzando i ragazzi, senza però rovinargli la vita (i due adolescenti, dal canto, sembrano non rendersi conto della gravità dell’accaduto: sanno di potersela cavare – non ci sono testimoni e le immagini non sono chiare – e credono di aver commesso una semplice bravata. Con un morto, certo, ma era “solo una barbona”)? Come si comporta un buon genitore in questi casi?
Il delitto da cui parte One on One, invece, è quello di una ragazzina da parte di un gruppo di assassini. La storia a cui si assiste (al netto di una serie di ellissi e di non-detto) è quella della vendetta, perpetrata da un commando che stana, uno ad uno, gli artefici del crimine, per torturarli fino ad una confessione scritta. Il clima sembrerebbe quello di una sorta di guerra civile: se da una parte gli assassini si difendono sostenendo di aver “obbedito agli ordini” e di aver agito “per il bene collettivo” (ma le motivazioni non vengono mai realmente chiarite), dall’altra i vendicatori si propongono come un gruppo paramilitare. Presto, però, si scopre che la banda agisce in maschera, recitando un ruolo, travestendosi nei più svariati modi (agenti speciali, soldati, netturbini…). Il vero obiettivo diventa inchiodare i colpevoli alle loro responsabilità, metterli a tu per tu con la propria coscienza. “Lo rifaresti?”, “Riesci a dormire la notte?”, sono alcune delle domande rivolte agli assassini dal leader del gruppo. Quando però la situazione gli sfugge di mano, portandolo a finire con un colpo di pistola (le armi degli altri sono invece finte) uno dei rei confessi, il film diventa, come si diceva, una riflessione sulla giustizia e sulla vendetta, sulle tentazioni dell’auto-assoluzione nel nome del Bene, su fin dove sia possibile, sia giusto, sia umano spingersi. Kim Ki-Duk ha dichiarato che One on One rappresenta per lui un monito su ciò che la Corea rischia di diventare. La storia e la cronaca, anche recente, ci insegnano però quanto il rischio sia concreto ovunque, anche più vicino a noi, anche sotto casa. Nonostante (per usare una battuta del film) la nostra società, pur non perfetta, sia “sempre meglio della Corea del Nord”.