I nostri anni. Per cominciare a parlare dell’esordio nel lungometraggio di Daniele Gaglianone credo che si debba partire proprio dal titolo che si presta ad essere interpretato almeno ad un doppio livello: da una parte quel “nostri” si riferisce alla dimensione intima e privata dei tre protagonisti, Alberto, Natalino e Umberto che ,ormai anziani, si trovano a confrontarsi con le ossessioni e i traumi del proprio passato segnato dalla lotta nella Resistenza anti-fascista su schieramenti opposti (Alberto e Natalino come guerriglieri partigiani, Umberto come ufficiale delle Brigate Nere). Dall’altra quel “Nostri” si estende al senso di appartenenza ad un periodo storico dilaniato da una guerra disperata, clandestina e sanguinosa che il popolo italiano oppose agli invasori, anche quando questi ultimi avevano lo stesso aspetto e parlavano la stessa lingua di chi stavano opprimendo. Si tratta di un nodo particolarmente doloroso, di una lacerazione, una ferita che forse è stata medicata in maniera troppo superficiale, anestetizzata dal tentativo di trovare un punto di pacificazione e di superamento, quando la piaga virulenta sotto la superficie ancora ribolliva di rabbia e richiedeva che quel dolore venisse sentito, compreso, elaborato.
Ecco, Gaglianone compie quest’azione, questo svelamento di quello che continua a bruciare sotto le ceneri della Storia, una fiamma che arde e che si impossessa delle immagini e del senso del montaggio, coniugando l’etica con l’estetica, la necessità di raccontare con la capacità di formulare un proprio linguaggio personale in modo da toccare le corde più intime dell’io privato, ma anche le maglie più larghe di una coscienza collettiva, rimossa, perduta, dimenticata e che il cinema, riabilitato in tutta la sua forza espressiva e la sua libertà linguistica, può far rivivere.
Ciò che rende I nostri anni cosi vicino allo spettatore di qualsiasi generazione e con qualsiasi livello di conoscenza del periodo della Resistenza è il fatto che si tratta di un film vivo, vibrante, tutto sintonizzato sulla frequenza del ricordo di Alberto, sulla cui immagine tenera, sperduta, eppure carica di dignità e di vitalità si apre non solo il film, ma anche il racconto o meglio l’andamento dell’immagini sincopato, nevrotico, che lascia senza fiato e rende l’idea della morsa, del rimorso in cui è imprigionato chi è sopravvissuto ed è stato testimone del massacro dei propri compagni.
Non c’è dunque soluzione di continuità tra passato e presente, il passato è ancora presente, non c’è spazio per la nostalgia o la ricostruzione, tutto è ancora sull’orlo della distruzione, del pericolo, della precarietà, tutto si ripete ogni notte negli incubi di Alberto e non c’è la possibilità di una rievocazione compiuta e definita, per quanto dolorosa. In questo senso è significativa la sequenza di Natalino, amico e compagno partigiano di Alberto, che non riesce a dare delle risposte definite al ricercatore universitario che viene ad intervistarlo sul suo periodo da partigiano, perche ancora vivo e non pacificato è il tormento che prende la forma delle stesse immagini, quelle di un brutale eccidio dove perse la vita un loro comune compagno di lotta, all’origine degli incubi di Alberto.
E il presente diventa l’espressione e il prolungamento di una vita che per Alberto è diventata la triste e forzata degenza dentro un ospizio e per Natalino l’isolamento volontario in un borgo quasi disabitato del Piemonte, luoghi che senza forzature o facili simbolismi, diventano i container della memoria abbandonata, dove i lampi, le schegge impazzite di quell’esperienza adrenalitica e furiosa di guerriglia tra i monti invade il campo limitato dell’inquadratura, dilatando e distorcendo la percezione degli oggetti, dei corpi, dei suoni. A volte è il respiro affannoso di Alberto che prende il sopravvento, che si confonde e si intreccia con i suoni della memoria, che da la sensazione di voler uscire dai confini dell’inquadratura, come a voler inghiottire dentro il suo modo di percepire e sentire la realtà lo spettatore, chiamato ad essere qualcosa di più e di diverso da un testimone, ad identificarsi con una condizione psicologica ed emotiva, prima che con un punto di vista o una riflessione intellettuale.
Morando Morandini scriveva a proposito della protagonista di Hiroshima mon amour, tormentata dal ricordo di un amore perduto tragicamente durante la guerra, che la trasformazione di quel ricordo (uno stato) in memoria (un atto) le consentiva la possibilità di ricominciare a vivere. Questo passaggio viene compiuto da Alberto e Natalino quando entra in scena il personaggio di Umberto, vecchio semi-paralizzato compagno nell’ospizio dove vive Alberto, il quale lo riconosce come l’esecutore della strage dei combattenti partigiani a cui aveva assistito impotente. Anche qui non c’è facile pietismo o tentativo di prendere le distanze o di comprendere i punti di vista o le motivazioni: Gaglianone affonda con coraggio la macchina da presa all’interno della piaga, il male, il tormento di cui soffrono Alberto e Natalino seguendoli in un percorso di “vendetta” interiore, il confronto con le ombre della propria storia personale a cui è ora possibile rivolgersi nelle sembianze di un corpo, quello di Umberto, divenuto impotente, vulnerabile, condannato a un’immobilità che lo costringe ad ascoltare e a ricordare le atrocità commesse. La pratica della memoria che diventa la più implacabile e spietata delle esecuzioni.
In tutto ciò, la scelta del bianco e nero raramente è stata più espressiva, annullando completamente la distanza del tempo e costruendo, attraverso delle soluzioni di luce fortemente contrastate, una sorta di porto franco dove far approdare e incontrare in un unico flusso le immagini della mente e del cuore, non sfumate o ammorbidite, ma segnate, marcate a fuoco da tratti lividi e fiammeggianti.
Quello che da questo momento in poi diventerà il segno del cinema di Daniele Gaglianone.