Se Micheal Cimino avesse dedicato tutto il suo immane talento solo per stare dietro a qualche banchetto a favore delle anatre di Central Park o a fotocopiare volantini anticapitalisti da appendere a Coney Island sarebbe potuto benissimo diventare il migliore amico di uno dei protagonisti de I Giardini dei Dissidenti di Jonathan Lethem.
A pochissimi registi però oltre quello de I Cancelli del cielo verrebbe in mente di confrontarsi con l’eventuale trasposizione al cinema di un libro che – da un lato – ha la complessità scenica e umana di un Ben Hur o de Il Dottor Zivago e dall’altro alcuni movimenti di pensiero abbaglianti, cristallini e inafferabili per qualsiasi tipo di telecamera. Quattro anni fa, in un romanzo fiume e forse irrisolto, Libertà, Jonathan Franzen diede una luce quasi nobile al concetto di tradimento coniugale, immergendolo in una storia lunga oltre vent’anni e densa di ecologismo radicale, punk-folk newyorkese, significati immanenti e rincorse inutili. Il suo omonimo Lethem qui va addirittura oltre, coinvolgendoci in oltre settant’anni di attivismo politico, da Woody Guthrie a Occupy#, mettendo sempre a confronto ideali purissimi a vite piccolissime e bisogni codardi.
Non sappiamo se il personaggio di Rose possa realmente essere una metafora del Comunismo americano, l’incedere dello scrittore però è prossimo a quello monumentale e spietato della Storia, intesa in senso universale. A tutti i protagonisti del resto sono concessi momenti di estasi e gloria letteraria, ma anche finali quasi oscuri e ignoti, come se Lenny e Rose fossero non solo le vittime di un movimento politico sconfitto, ma anche quelle dell’inesorabile e spietato cammino dell’uomo.
Tre generazioni della famiglia Angrush-Zimmer-Gogan si inseguono e forse non riescono mai a passare insieme il momento giusto in uno scenario di cambiamenti continui e devastanti sulle loro esistenze. Per chi ama la purezza e la rotondità della scrittura va detto che qui Lethem surclassa letteralmente Franzen. Le iperboli, i paragoni e la profondità dei dettagli hanno tentacoli che si annodano nei contorni delle scenografie umane fino al limite dove probabilmente le può riconoscere solo l’autore stesso. La cosa incredibile è che a volte lo stesso Lethem sembra rendersi conto di esagerare con l’ampiezza e la profondità del dettaglio, asciugandosi di colpo in modo retrattile e plateale.
Viste le ambientazioni e le storie dei protagonisti, il paradosso più grande è che il libro poteva avere la sua forza nella denuncia o nello sfogo politico contro la rassegnazione americana al consumo. Al contrario, il comunismo, New York o l’ebraismo appaiono sempre sullo sfondo dando spazio ai drammi e alle incertezze dei protagonisti.
Nel memorabile momento di confusione di Rose tra realtà vissuta e quella forse immaginata della televisione, sembra veramente di leggere passaggi da Requiem for a Dream di Selby Jr.
Il finale, con la resistenza passiva ai controlli ottusi della sicurezza aeroportuale dimostra che scintille di sarcasmo possono ancora bruciare chili di amarezze e nonsense. In una delle pagine conclusive, l’autore si lascia sfuggire che l’anticapitalismo negli Stati Uniti non ha mai trovato spazio perché il consumismo si era impossessato prima di tutto quello disponibile. Il più grande insegnamento di questo libro però è che ogni nostro slancio costruttivo, anche il più leggero porta dentro di sè le uniche testimonianze che possono davvero sopravviverci.
bella recensione! contagiosa. mi è venuta voglia di tuffarmi nella lettura (anche perché libertà l’ho letto in tre giorni di piacere e se tanto mi dà tanto…)