A San Pietroburgo è inverno, quell’inverno lungo e gelido che la tradizione di tanta letteratura ci insegna. Giardinetti innevati, poche carrozze per le strade. Fjodor Dostoevskij si angoscia perché il tempo stringe: il termine di consegna del suo nuovo romanzo, Il giocatore, sta per scadere e il pagamento dei debiti è una realtà sempre più remota.
San Pietroburgo — ma potrebbe essere Rivombrosa o una qualunque cittadella Endemol — è percorsa dal terrore (descritto, più che sentito) degli attentati che insanguinano la Russia di fine ottocento. Dostoevskij, quasi involontariamente, si trova coinvolto in un’altra corsa contro il tempo, per impedire l’assassinio di un familiare dello Zar.
Non è richiesto un grande sforzo d’ingegno per comprendere che i tre giorni cinematograficamente più difficili della vita del romanziere russo (ovvero l’unico, nel senso lukacsiano di “romanzo” — polifonico, dunque moderno), che corrispondono al ritorno al cinema di Giuliano Montaldo (a quasi 20 anni da Il tempo di uccidere), vogliono incarnare una traduzione, ambiziosa e pomposa, di volti, temi e psicologie cari all’opera dostoevskiana: metaforicamente ed esistenzialmente, la letteratura attraverso la vita.
A scanso di equivoci — semmai ce ne fossero stati — I demoni di San Pietroburgo richiama sin dal titolo uno dei romanzi più sottili, convulsi e violenti di Dostoevski (I demoni, appunto), storia della putrefazione morale di giovani demòni riuniti sotto il segretissimo e perverso vincolo di una cellula pseudo-bakuniniana di cospiratori (ma la straziante e disperata caduta del vero protagonista del romanzo, Nikolaj Stavrogin, non è qui contemplata).
Lanciato in una sfida indubbiamente elevata, Montaldo costruisce, su un’idea di Andrei Konchalovski, una storia complessa e articolata, sviluppata per piani paralleli, che intreccia romance (la stenografa Anna Grigorjevna, che il romanziere assume per velocizzare la consegna del romanzo, diverrà sua moglie), intrigo (l’atto gratuito, il puro male che è il regime simbolico nel quale si definisce l’essenza stessa del terrorismo), memoria (gli anni dei lavori forzati in Siberia) e senso di colpa (la scrittura di libri più incendiari dei proclami stessi).
Un film in odore di fiction che punta a molti bersagli, ma senza colpirne neanche uno, in un gioco farraginoso e sfocato di ideologia, ricordi dolorosi, abiti sontuosi e scenografie regali (girate in location a San Pietroburgo e Torino) che deve molto della sua (zoppicante) riuscita ad un cast solidissimo (composto dalla star serba Miki Manojlovic, Carolina Crescentini, Anita Caprioli, Filippo Timi, Sandra Ceccarelli e l’eccezionale Roberto Herlitzka) e a momenti di indubbia fascinazione letteraria.
In questo quadretto disagevolmente idialliaco, didascalico ed estetizzante come ogni buon racconto per il grande pubblico della domenica e del lunedì di Raiuno, la scrittura cinematografica (e, se vogliamo, la sua anima) è una terra straniera.