[*] – La Londra di fine Ottocento è il teatro della maturazione politico/sociale/ideologica/sentimentale di un giovane medico (ginecologo) che, dapprima apprendista presso un affermato dottore in medicina femminile dalle idee parecchio conservatrici, diventa ricco grazie all’invenzione di un particolare oggetto, estremamente utile. Hysteria è un film ad alta potenzialità, offertagli tutta dal soggetto: l’invenzione del vibratore. In buona sostanza, l’oggetto della meraviglie nasce dall’incontro tra l’esigenza di sostituire la stanca mano dell’uomo che troppo si impegna nel procurare parossismi alla donne e una scoperta tecnologica destinata a tutt’altro.
Di spunti per creare situazioni divertenti ce ne sarebbero a bizzeffe, ma la sensazione è di una esplosione contenuta. Siamo a fine Ottocento e, sicuramente, l’ambientazione è parzialmente responsabile dell’ingessatura del racconto, anche se basta un giovane sbarbatello con gli occhi color cielo e l’aria da anni 2000 che mal si adatta al contesto, per stemperare un po’ i comportamenti dell’ epoca/ambiente in questione. A contribuire al climat generale, anche la matrice british (nonostante la regista Tanya Wexler provenga dall’Illinois, il film è interamente ambientato (girato?) in Gran Bretagna, grazie a una produzione per un quarto inglese). In certi momenti, il prodotto risulta un po’ posticcio, inserendosi così nella scia di tutti quei film che ricostruiscono un avvenimento storico con il senno di poi (sapendo già come è andata a finire); cosa che fa perdere molta spontaneità nella filigrana della messa in scena. Un recente esempio di film che pecca nello stesso punto è The Social Network di David Fincher. Se lì era Facebook, qui è il telefono. Giustamente, Rupert Heverett non può proprio credere al fatto di stare parlando con l’altra parte del mondo, e non può crederci talmente tanto che, nell’entusiasmo, sta al telefono anche se “non ha nulla da dire”. Finanche il nome da assegnare al meraviglioso oggetto fa lo slalom tra i nomi migliori, passando per “mister tremolio”, “lo sfregafemmine”, “il parossismatore”, anche se risulta difficile credere a tutta questa fantasia, soprattutto in vista del risultato finale, estremamente letterale (vibratore). Si prende nota di una scena che riesce a sprigionare una grande forza, che è quella della cantante lirica spagnola che, impossibilita da tempo a svolgere la sua professione, in un momento di particolare piacere (indotto) intona un canto meraviglioso che avvolge tutte le zone e gli angoli della narrazione. Nel film, l’isteria è trattata come – per dirla malamente – un termine ombrello sbrigativo sotto il quale finiscono tutte le stranezze della donna.
O, almeno, questo è quanto si è crede fino a un certo punto; fin quando la società non prende coscienza, dopo un’ appena accennata protesta ai bagliori del femminismo (che pure in tutta la sua avanguardia, crede ancora che la depressione sia una cosa da ricchi), dell’assoluta assurdità della sua definizione: una malattia vera e propria. Stiamo però ancora nei pressi del medioevo della riflessione se, dal punto di vista contenutistico, il film, da un lato, racconta l’abbattimento di un cliché (l’isteria poi verrà abolita definitivamente come diagnosi nel 1952), ma sicuramente, dall’altro, caldeggia altri tipi di cliché, come ad esempio il fatto che il sesso sia la soluzione. Hysteria avrebbe tutte le carte per essere un film impazzito, pieno di idee, idealismo e ideologia, per raccontare la parte bella di un’esplosione di follia, ma in realtà combina gli elementi in modo tale che il fuoco d’artificio perde d’efficacia.
Basti pensare al fatto che il punto di svolta più importante del film (quello che tutti attendono dall’inizio, ovvero la conversione del protagonista che, messo di fronte alla scelta finale, opta in favore della retta via), si aggrappa a una ragion d’essere piuttosto relativa, cosa che indebolisce a maggior ragione la – già scarsa – forza e del suo punto di vista. Improvvisamente il giovane medico decide di stare dalla parte giusta, ma non si capisce bene perché. E questo succede a causa della lunghezza della prima parte (quella precedente la svolta), che si protrae maldestramente oltre i limiti consentiti da una perfetta godibilità, in cui il giovane è, sostanzialmente, ridotto a un bizzarro atteggiamento burattinesco, che però – anch’esso – non trova giustificazioni.
l finale, un happy-end fiabesco lungamente prevedibile Certamente, ogni medico che sa di essere fuori dalla grazia di dio per il tempo che occupa a triplicare il profitto della sua professione, dovrebbe fare un giro al cinema a vedere il film, dilapidando in questo modo il suo patrimonio per ben sette euro e cinquanta.