Corporatura imponente, uno sguardo intenso e diretto. Nelle interviste difende e ribadisce la sua indole d’artista più di quella di cineasta. Dichiara sempre di non ispirarsi a nessuno ma di guardare solo a se stesso seguendo il suo istinto, le proprie esigenze creative e le necessità del film. Sicuramente in questo momento ha in testa solo il cinema perché gli piace raccontare storie e ci riesce molto bene.
Il londinese Steve McQueen, è diventato famoso inizialmente come artista vincendo nel 1999 il prestigioso Turner Prize con Drumroll, un’opera video risultato di una ripresa effettuata con tre telecamere inserite all’interno di fusti per petrolio fatti rotolare per le strade di New York. Dalla scultura passa rapidamente alla fotografia e poi alla video-arte. In Italia abbiamo avuto poche occasioni per vedere le sue opere. Nel 2005 alla Fondazione Prada di Milano è stata presentata una sua antologica. Ha partecipato alla Biennale di Venezia del 2007 e nel 2009 è ritornato nel padiglione britannico come special guest con un’opera video di 30 minuti che riflette sul luogo stesso che accoglie la manifestazione. Protagonisti sono i Giardini della Laguna di Venezia ripresi nel periodo invernale della desolazione, tra rifiuti, pezzi di allestimenti e mortiferi levrieri neri in cerca di cibo.
McQueen elabora una grande sensibilità verso la conoscenza più intima e inaspettata delle vicende umane e dei luoghi dove avvengono. La sua comunicazione visiva è fortemente carnale, quasi a cercare un contatto fisico con lo spettatore, per provocare un risveglio dei sentimenti assopiti. Un aspetto che trasmigrerà dall’arte al cinema. Esplora spesso le zone urbane ma arriverà a riprendere la miniera d’oro più profonda del mondo in Sud Africa. In Western Deep (2002) l’artista ha seguito e documentato il lavoro e gli esercizi di disintossicazione dei minatori in un viaggio nelle viscere della terra. Lo spettatore è trascinato in un abisso claustrofobico e silenzioso. Nello stesso anno realizza Carib’s Leap (Falling People) / Carib’s Leap (Live Action) un’opera video che fa riferimento al suicidio di massa degli abitanti dell’isola di Grenada che nel 1651 si gettarono nell’Oceano da un’altura, scegliendo la morte, pur di evitare la schiavitù sotto il dominio francese.
Nel 2003 si reca in Iraq come artista di guerra nominato dal comitato d’arte dell’Imperial War Museum. Uno dei progetti scaturiti da quest’esperienza fortissima è Queen and Country, un’installazione esposta nel 2010 alla National Portrait Gallery di Londra. Si tratta di una serie di foto dei soldati britannici uccisi in Iraq che si ripetono su facsimili di pagine e pagine di francobolli della Royal Mail. Una laconica scansione di volti. Un progetto che riuscì a realizzare grazie alla collaborazione delle famiglie delle vittime che accettarono di mettere a disposizione le foto. In seguito l’artista iniziò una battaglia per far stampare davvero, sopra i francobolli delle poste inglesi, le immagini dei soldati morti.
Nel 2008 con Hunger fa il passo decisivo verso il cinema che ormai covava da troppo tempo nell’esperienza da videoartista. Riesce a presentare il suo primo lungometraggio al Festival di Cannes e vince la Camera D’Or registrando per settimane il tutto esaurito nei cinema di Londra, Parigi e Berlino. In Italia purtroppo il film è rimasto vergognosamente inedito, non trovando distribuzione. Per fortuna la stessa sorte non è toccata a Shame che, dopo il successo alla 68° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e la meritata Coppa Volpi all’attore Michael Fassbender, sarà distribuito in Italia dalla BIM e arriverà nelle nostre sale nel 2012.
Con Hunger si affronta un’altra pagina nera della Gran Bretagna. La protesta dei detenuti dell’IRA nel carcere di Long Kesh contro il mancato riconoscimento dello status di prigioniero politico da parte del governo britannico. Ma il regista, oltre a questo, si sofferma ampiamente sugli ultimi giorni di vita dell’attivista nordirlandese Bobby Sands, morto dopo 66 giorni di sciopero della fame. Una morte tutta raccontata e sentita attraverso la sofferenza del corpo, protagonista straziante. L’orrore e la violenza della vita carceraria vengono ricomposti in irreprensibili e glaciali inquadrature ricercando inusuali posizionamenti della videocamera. McQueen sperimenta e agisce sugli opposti. Alterna e unisce una componente tecnica ricercata, fredda e cronistica, con una penetrante componente emotiva. Scarnifica i corpi e la storia da ogni elemento didascalico, narrativo, morale, politico, sociale. Rimane la scelta estrema di un uomo che difende il suo ideale contro un sistema e a un certo punto diventa solo la dolorosa cronaca della morte di un essere umano nel suo lento e consapevole spegnersi. Affida tutto il suo film alla successione d’immagini private quasi completamente di parole. Quindi la riuscita dipenderà solo dalla loro capacità di comunicare efficacemente la vicenda allo spettatore. Il meccanismo sembra funzionare alla perfezione anche se, circa alla metà del film, il regista, dopo tanto mutismo, stupisce inserendo un intenso dialogo ininterrotto di 22 minuti tra Bobby Sands e il parroco della sua città. La ripresa rimane fissa per quasi tutto il tempo facendo sentire lo spettatore un intruso nella stanza, quasi un invasore dell’intimità tra i due personaggi.
Attraversiamo le varie fasi della contestazione che inizia con la blanket protest, proseguendo con la dirty protest in cui i detenuti spalmavano gli escrementi sui muri delle celle e buttavano l’urina sotto le porte. Il lerciume sulle pareti diventa una spirale astratta che si dissolve sotto un getto d’acqua e l’immagine dell’urina che scorre sotto le porte è trasformata in un’inquietante scena metafisica. Infine arriviamo allo sciopero della fame in cui il corpo si ospedalizza e diventa quello di un malato terminale che abbandona lo scafandro e viaggia libero con la mente tra passato, brevi risvegli nel presente e visioni dell’aldilà. Come un Caravaggio morente sulla spiaggia di Porto Ercole o un Van Gogh agonizzante in un campo di grano ad Auvers-sur-Oise. Sopra il corpo di Bobby Sands la videocamera ha le movenze e i rumori di un corvo che sbatte le ali.
Annuncia la fine ed è un tramite tra il regno dei vivi e quello dei morti.
Dopo un così straordinario esordio con Hunger c’era molta attesa per il secondo lungometraggio, Shame che ha confermato il talento registico di Steve McQueen, al momento già impegnato nella lavorazione del suo terzo film 12 Years a Slave basato sulla storia vera di Solomon Northrup, un uomo di colore rapito e venduto come schiavo in una piantagione di cotone in Louisiana, dove fu liberato solo dopo dodici anni. Un’altra tematica di forte richiamo sociale e un’altra storia che parla di una vita sotto costrizione.
In Shame il protagonista è solo apparentemente un uomo libero e dall’esistenza realizzata. Ha un volto familiare. È giovane, bello, vive in un loft al centro di New York, ha un buon lavoro, ma in realtà si trova in una prigionia mentale; schiavo della sua dipendenza dal sesso che condiziona e scandisce, in modo sempre uguale, tutte le sue giornate. Dall’America arriva l’80% del porno che si consuma in tutto il mondo. In Italia i sessuomani sono pi&ugra
ve; di un milione e mezzo. Un fenomeno diffusissimo di consumatori compulsivi di erotismo industriale tra internet, sesso a pagamento, club privè ecc… Una vera e propria patologia che isola dalla realtà e determina una frigidità morale ed emotiva. Brandon è solo e vive in continuo stato d’allarme per nascondere la sua vergogna. Il suo corpo cerca l’oblio nel sesso ma è disperatamente insaziabile di un appagamento che non raggiunge mai.
Quando irrompe l’ospite inatteso, a spezzare la regolarità dei suoi rituali giornalieri, entra in crisi. Il confronto con la sorella riapre profonde ferite del passato da cui derivano tutti i mali. Mentre Brandon soffre di una dipendenza sessuale, Sissy, in opposizione al fratello, soffre di una dipendenza sentimentale così devastante che, quando rimane delusa o si sente abbandonata, genera impulsi suicidi. Entrambi, nel corso di una notte terribile ma risolutiva, arriveranno al limite dell’autodistruzione. Lui, nel tentativo di soffocare emozioni e sentimenti che ormai prevaricano senza più argini, precipita in un’overdose infernale di sesso estremo mentre lei decide di togliersi la vita. Non sarà la fine per nessuno dei due.
L’occhio di McQueen resta addosso al protagonista per quasi tutto il film con invasivi primi e primissimi piani. Vuole creare un legame intimo tra lo spettatore e il personaggio per rafforzare l’effetto empatico quando il dramma comincerà a crescere. Svela tutti gli atti nascosti della sua dipendenza, coglie le lacrime sul suo viso mentre ascolta cantare la sorella in un locale. Ed è ancora il corpo il punto di vista, il punto di partenza, il punto di rottura; luogo di contatto e di separazione tra il sé e il mondo. L’altra protagonista è New York con i suoi asettici interni di uffici e camere d’albergo da cui Brandon, inscatolato nel suo solipsismo, osserva l’esterno dall’enorme finestra/schermo. Dialoghi ridottissimi come in Hunger e immagini molto curate sul filo del puro compiacimento estetico. C’è un po’ il sentore della patinatezza pubblicitaria ma non si rimane a quello stadio raggelante come accade in A Single Man di Tom Ford, film chiuso nell’esasperante ricercatezza formale che non riesce a rendere credibile e coinvolgente il dolore del protagonista nonostante la grande performance attoriale di Colin Firth. In Shame questo rischio di esporre al pubblico una sterile materia filmica auto-contemplativa si sfiora ma poi c’è tutto un mondo psicologico che esplode, non rimane mai in superficie. Il cinema di Steve McQueen racconta di prigionie restando, a sua volta, chiuso in un rigido regime tecnico di repressione dove tutto è controllo. Un equilibrio perfetto di tempi, forme, colore, suono per poi innescare l’evasione attraverso un potente congegno emotivo.
Ho visto il film ieri sera (shame), mi è piaciuto, le considerazioni che fai sono giuste e direi rigorose, ma mi sembrano rivolte esclusivamente alla descrizione del mero evento significante. C’è qualcosa che però non torna nel “perché” complessivo del film. Perché, voglio dire, l’unica comunicazione possibile e reale è quella affidata all’autodistruzione, e all’affettività dispiegata unicamente come discorso e percorso consapevole verso la morte? Perché il corpo è solo veicolo di spietato senso dell’orrore nel celebrare questa comunicazione? mi pare di capire che il regista è ossessionato dal perfezionismo delle sue indagini, che diventano per forza monotematiche e autoavvitanti, che il corpo, come anche in altri film (che però non ho visto), diventa strumento di indagine e specchio dell’anima, anima che non è necessariamente particolare o affetta da patologie compulsive, ma anima (o psiche come vi pare, c’è differenza ovviamente ma si possono usare questi termini indifferentemente ai fini della comprensione) universale, totale, secondo il regista. Tanto è vero che non sono dati momenti o anche solo percezioni alternative. Il bellissimo pezzo di sola comunicazione che inclina a un riflesso emotivo è quello della canzone di Sissy, ma le lacrime del fratello sono aride e gli occhi di lei non sono inquadrati; solo la bocca, meravigliosa ma non sensuale. Anche se lo volesse, e il desiderio di sensualità e di vita è struggente, è negata ogni possibilità di diversa espressione e comunicazione se non quella che fa del corpo una specie di involucro sacrificale.
Sarebbe semplificatorio guardare Brandon come un’entità negata, d’altronde, ma anche sostenere che la negazione è universale lo è. Lo sguardo è volutamente parziale e taglia la materia umana come fa il bisturi dell’ anatomo patologo in un’autopsia per trovare conferme a eventi supposti, a traumi fittiziamente conclamati, ma la sua parzialità è limitativa, castrante.
Non ricerco atti consolatori, non mi interessa, il film mi è piaciuto, ripeto, ma è intrinseco un limite non solo poco attraente, ma in definitiva poco accettabile. Non accettabile voglio dire, per darne un giudizio libero e completo.
A me alla fine non è piaciuto molto. Mi sembra che ricondurre tutto alla vergogna, al peccato, di certi comportamenti devianti, rischia di sminuire le contraddizioni del desiderio, riducendolo dentro il manicheismo moralista del bene e del male. E poi, mi viene in mente che sulla visione negata Haneke ci ha costruito sopra tutta la sua poetica, però quando esci da uno dei suoi film quello che vorresti fare è abbracciare il primo che capita (e quindi tutto il mondo). Qui invece scivola tutto via non lasciando alcun segno che non sia solo (consolatoria e protettiva) forma.