di Chiara Palmisani/ Nella splendida cornice del Karawan Festival 2023, che quest’anno si è svolto nel mese di settembre a Roma, nel Parco Giordano Sangalli, è da anni possibile vedere film all’aperto gratuitamente, facendolo insieme alle tante persone del quartiere che lo ospita: film stranieri che in Italia non verranno distribuiti da vedere in un contesto unico, come si legge nella presentazione del progetto del festival: Karawan nasce a Tor Pignattara ed è come Tor Pignattara: contraddittorio per natura, mutevole per necessità.
E’ qui che si è potuto assistere all’esclusiva proiezione di Hit the Road, film iraniano del 2021, di Panah Panahi (figlio del regista Jafar Panahi), un road-trip movie che riprende la tradizione del cinema iraniano, ma al tempo stesso che se ne discosta con coraggio e abilità. Panah Panahi è figlio d’arte e ha sulle spalle il peso di una grande aspettativa nei confronti dei suoi film, come da lui stesso dichiarato. In Hit the road riesce con maestria a svincolarsi da questo peso, mescolando in maniera creativa ed efficace più stili, passando da scene claustrofobiche girate nell’abitacolo di un’auto, alla Kiarostami, a un modo di filmare completamente diverso, con uno slancio e un’impronta tutta sua. Un cinema fortemente iraniano: connotato ma al tempo stesso nuovo. Se il cinema del padre e dei suoi maestri è più vicino al neorealismo, quello di Panah Panahi è un film dolce-amaro, che racconta una storia triste ma a tratti divertente, con accenti fantasiosi e poetici.
Il film parla di una famiglia composta da madre (Pantea Panahiha), padre (Hassan Madjooni), figlio piccolo (Rayan Sarlak) e figlio grande (Amin Similar), in viaggio da Tehran verso una meta ignota, attraversando un paesaggio suggestivo, arido e desolato, più verde e dolce nel finale. A mano a mano che il film procede, si inizia a capire che la meta del viaggio è un punto di incontro con alcuni intermediari, tramite i quali il figlio grande dovrebbe riuscire a lasciare il paese. I protagonisti vivono questo viaggio in modi differenti, esternando o rimuovendo i sentimenti di dolore e spaesamento che provano, cercando di fingere “per il figlio piccolo”, ma forse più per se stessi, che tutto stia andando bene e che il figlio grande stia semplicemente andando a fare un viaggio per incontrare la sua sposa. In questo clima di intimità familiare, di piccoli litigi, prese in giro, rimproveri e silenzi, irrompe nella scena la vivacità e l’esuberanza del fratellino più piccolo, che sdrammatizza o a volte esacerba l’evidenza del dramma in corso.
Ad enfatizzare lo stato d’animo dei protagonisti ci pensa la musica pop iraniana, pezzi struggenti come “Soghati” di Mohammad Heydari. Dai primissimi piani all’interno dell’abitacolo, la camera passa a mostrarci il mondo fuori, la strada, il deserto, le colline e, piano piano, attraverso l’utilizzo del campo lunghissimo a farci intravedere le persone come puntini nel paesaggio, ci mostra quella che potrebbe essere una delle tante persone costrette ad abbandonare il proprio paese, senza la certezza di riuscire a superare il viaggio.
Verso la fine del viaggio, il figlio in partenza, che si è chiuso per la maggior parte del tempo in un assordante silenzio, si ritrova seduto con il padre su alcune pietre lungo il fiume. Il padre gli chiede di raccogliergli una mela e lì, mordendo quella mela, con il rumore dell’acqua del fiume in sottofondo, padre e figlio tornano a parlare. Non è il dolce sapore del gelso o della ciliegia quello per cui forse vale la pena vivere, come invece cercava di far credere il signor Bagheri al protagonista de “Il sapore della ciliegia”, per cercare di distoglierlo dal proposito di suicidio. E’ forse il gusto dolce-aspro della mela quello che vale ancora la pena assaporare. Lo stesso gusto che contraddistingue Hit the Road, che molti anni dopo il film di Kiarostami, forse ci dà un messaggio diverso: non è più immaginabile andare avanti rimpiangendo il falso mito di una dolcezza assoluta, ma solo riuscendo a confrontarci con le contraddizioni della modernità e con il non-rassicurante ci si può liberare da illusioni assolutistiche, tanto attraenti quanto pericolose.
E noi, che vediamo il film, oltre a poter immaginare il dolore della separazione dalle persone amate, la paura che quel tipo di viaggio porta con sé, riusciamo anche a intravedere un movimento, uno scarto di lato, un qualcosa di leggermente liberatorio in fondo, alla fine di questo viaggio, anche se non ancora un segnale esplicito di speranza (il film è precedente alle rivolte esplose in Iran in questo ultimo anno). Il passaggio della camera dal dentro al fuori, lo sguardo verso “l’aperto” e la possibilità di riuscire a ritrovare le parole dopo tanto tempo, sono tentativi di immaginare qualcosa di diverso. Per il cinema e per il popolo iraniano.