Sabato scorso Alias, omaggiando Kiarostami, riportava anche alcune vecchie considerazioni di Ermanno Olmi sul cinema italiano.
Secondo il maestro de Il Mestiere delle armi, “la primissima generazione dei nostri autori guardava alla vita e faceva i film. La seconda ha visto i film della prima, guardava la vita e faceva dei film. La terza guarda solo i film e fa film”, stop.
Partendo da queste premesse e aldilà del discorso anagrafico ammettiamo che siamo in grandissima difficoltà nel collocare Alessandro Piva nella genealogia alberologica del nostro cinema. Le facce e le situazioni de La capa gira e Mio Cognato del resto più che al filone del cinema del post-reality o alla sindrome da fiction hanno le fattezze di chi le anteprime di Sky se le può guardare solo da fuori della finestra degli altri e specie quando non c’è troppa polizia in giro. Potevamo parlare più che bene anche di Henry già un anno e mezzo fa. La nuova produzione del regista pugliese però ha avuto un percorso distributivo decisamente estenuante. Paradossalmente, tutto il tempo che è trascorso da allora sembra aver contestualizzato ancora di più le vicende del film alla famigerata guerra tra bande in corso a Roma che proprio adesso pare assumere nella realtà aspetti sempre più cruenti. Aldilà del fatto che molte scene sono state girate direttamente a Torpignattara, Henry racconta con molta più passione le strade della Capitale che non Gli Sfiorati o Verdone (entrambi usciti in sala il 2 marzo), e soprattutto i personaggi di cui si caratterizza, sia che siano cialtroni, tossici, maestre di aerobica o sicari, danno sempre l’idea di esserne un’espressione assolutamente coerente e riconoscibile. Oltre ad avere gli aspetti del realismo dal sangue caldo di Nico D’Alessandria o Claudio Caligari, tutti gli junkie e gli spacciatori di Piva, sono calati perfettamente nei cicli della routine sociale e borghese di Roma con in più una costruzione narrativa e uno stile filmico coraggioso e incalzante.
La trovata del confessionale a parte, per molti dei protagonisti, oltre a sviare e ad accellerare i tempi di immedesimazione apre un profilo psicologico per alcuni dei personaggi veramente interessanti. La storia del viaggio in india di Pietro De Silva, ne disumanizza e approfondisce il cuore il maniera devastante. I tratti parossistici e triviali di Abbrescia o quelli normalizzati al contrario di Sassanelli danno poi all’insieme anche una componente comica che è sicuramente un’arma in più per tutto il film. A parte il ciuccio della Crecentini, affascinante e cinica, non riusciamo a trovare lati negativi ad Henry. Alfonso Santagata quando è a tavola mette proprio appetito. Il conto lo paghiamo sempre con piacere.