Metti che il papa non voglia fare il papa. Metti che, un momento dopo la fumata bianca fatidica, il prescelto si senta schiacciato da una responsabilità troppo più grande di lui, sia indotto a riconsiderare il senso dell’intera sua esistenza, e che perciò alla prima occasione utile, letteralmente, si dia alla fuga. E metti, ancora, che il mondo attorno a lui non sia d’accordo.
Suona un po’ come uno di quei casi di scuola paradossali, che si citano all’interno di un ragionamento per lavorare dialetticamente sull’assurdo, l’idea-guida di Habemus Papam, ritorno alla regia di Nanni Moretti dopo l’“autorialità defilata” sperimentata in Caos calmo (di cui era protagonista e co-sceneggiatore). Ed è ovviamente un’idea mirabile. Perché ci costringe a fare i conti con l’impensato, chiama in causa il nostro pensiero laterale, sfidandolo ad elaborare “risposte adattive” coerenti con un mondo che improvvisamente dà prova – per dir così – di girare al contrario. Diamine, il papa è scelto da Dio, non è un capolista alle elezioni provinciali! Il papa, insomma, è il papa, mica un attore che può rifiutare una parte!
Oppure sì?
Dunque, si diceva, il vescovo Melville, corpo e anima dell’85enne Michel Piccoli, scappa dal conclave che lo ha appena eletto, e che è ancora riunito in attesa dell’insediamento, e per tre giorni vaga per Roma – Roma, finalmente, non Città del Vaticano – senza una meta. Il neo-papa in incognito prende il tram, va al bar, dorme in albergo, incontra persone. Tra queste, una psicanalista (Margherita Buy) e poi i componenti di una scalcinata compagnia teatrale, impegnata nell’allestimento del classico Gabbiano di Cechov. Melville vi si accoda, si spaccia per ex attore. Sembra essere affascinato, in particolare, dal Konstantin Trepliov di turno, un attore folle (Dario Cantarelli, quello del pastore abruzzese e del bracciante lucano: folgorante) ossessionato dal testo: lo recita continuamente e dovunque, al ristorante e persino in piena notte, svegliando un intero albergo, senza però riuscire a recitarlo in teatro davanti a un pubblico; un attore puntualmente fuori luogo. Intanto in Vaticano il portavoce della Santa Sede (il grande Jerzy Stuhr) fa interpretare il papa a una guardia svizzera, per non destare sospetti negli altri vescovi. Quando infine Melville viene rintracciato, a chi lo vuole per forza sul soglio, chiederà implorante: “Non possiamo fare che scompaio?”…
È qui il meglio e il succo di Habemus Papam: nel dirci, attraverso il gioco metatestuale scoperto di palcoscenici impropri che si sovrappongono a quelli “ufficiali”, di maschere che s’indossano e si smettono, che la tragedia di un papa davanti al trono che gli è destinato, molto prima che una crisi spirituale, è la laicissima crisi di identità di un uomo sopraffatto dalla vita e stanco di recitarla. Il finale del film (che qui ovviamente non si svelerà) appare affrettato e – in senso strettamente cinematografico – irrisolto. Ma il percorso psicologico del personaggio è limpido. Il film non è interessato, in fondo, alla dimensione spirituale e a quella “politica” della religione: tant’è che i giochi diplomatici che sottendono al conclave sono del tutto espunti dalla narrazione e i possibili spunti da dibattito teologico (il Darwin appena accennato, l’Inferno che sarebbe “vuoto”) sono subito lasciati cadere. Moretti e i fidati Piccolo e Pontremoli si concentrano in scrittura sull’umano, ponendo in primo piano l’inadeguatezza di un individuo – un individuo qualsiasi – di fronte a un’intrapresa che ha i tratti del sovraumano. E gli danno la conclusione più onesta.
Il resto è il lato B del film, focalizzato su un altro “caso di scuola”: metti uno psicanalista nel conclave. Dove lo psicanalista è Nanni Moretti nei panni del dottor Brezzi, che, chiamato in Vaticano per curare la psiche del pontefice appena eletto, si ritrova, quando questi scappa, a vivere una convivenza forzata e ovviamente surreale con un centinaio di vescovi “imprigionati”. È l’anima esplicitamente comedy del film, in cui il personaggio-Moretti torna prepotentemente a occupare lo schermo in una maniera nuova rispetto agli ultimi film e più vicina a quelli dei ’70 e ‘80. Brezzi non ha corposità di personaggio compiuto, del suo passato sappiamo poco, e ancor meno sapremo del suo futuro, visto che il finale lo taglia fuori all’improvviso. Ha puramente la funzione di destabilizzatore di un ambiente a cui è alieno, con i modi e i vezzi propri del morettismo: iperattività fisica, gusto per la parola fulminea, spiccato senso del surreale. Quasi, insomma, una reincarnazione del Michele Apicella che fu. Ma questo Brezzi è troppo poco folle. Il massimo della provocazione che riesce a imbastire è costringere i vescovi a organizzare un torneo di pallavolo, per il resto i suoi duetti con gli alti prelati si riducono perlopiù a siparietti, a volte divertenti, ma privi dello spessore tragico che emergeva dietro i sorrisi di opere come Sogni d’oro o Palombella rossa.
A queste condizioni, la “seconda anima” di Habemus Papam crea un grosso scompenso al film, tanto più se rapportata a un corpo centrale, quello descritto più su, dal quale sembra rimanere estraneo; in definitiva, poco più di un rumore di fondo.
ma il “lato B” è volutamente debole, i suppose; altrimenti, il film risulterebbe squilibrato da una gara al primeggio: il “lato A” è già fortissmo! 🙂