Perchè sì |
Perchè no |
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di Giovanna Quercia
Non ci dimenticheremo tanto presto di Walt Kowalski, probabilmente l’ultimo personaggio cinematografico con le fattezze di Clint Eastwood (ha annunciato lui stesso che non farà più l’attore…) Quella piega amareggiata della bocca, lo sguardo da bestia offesa sempre costretta a farsi la guardia, la solitudine radicale che emana fin dalla postura, dal più piccolo gesto. Che tanta evidente, ostentata ruvidezza e ostilità verso il mondo non possano che celare qualcosa di radicalmente opposto, qualche nascosto tesoro di gentilezza e umanità, lo intuiamo fin dal principio, – anche perché il grande cinema americano ci ha da sempre abituato alle metamorfosi di personaggi scorbutici dal cuore tenero – ma il percorso, e soprattutto, lo sbocco finale, questa volta sono veramente imprevedibili e toccanti. Walt Kowalski, vecchio reduce che non ha mai superato i traumi della guerra di Corea, né tantomeno quelli della vita “civile” (i rapporti con figli e nipoti sono all’insegna dell’estraneità e dell’opportunismo più biechi), è il classico uomo postumo, radicalmente disincantato dalla vita, che pensa di non aver più nulla da perdere né da chiedere. Aspetta la morte, che sa vicina, aspirando solo a essere lasciato in pace nella sua veranda, che lo isola da un mondo che giudica un posto brutto e pericoloso, da cui bisogna difendersi. Per difendere se stesso, però, si ritroverà ben presto, quasi senza volerlo, a proteggere la famiglia dei detestati vicini di casa, immigrati di etnia Hmong (popolo che vive tra Laos, Vietnam e Cina), dalle spietate vessazioni delle bande del quartiere. Sarà costretto suo malgrado ad apprezzarne lo stile di vita integro e tradizionale, l’unità della famiglia, i solidi principi morali comunitari che ne regolano la vita quotidiana; tutte virtù assai poco praticate, naturalmente, nella sua famiglia. Ben presto si ritroverà coinvolto mani e piedi dapprima nel ruolo di guida spirituale e morale del giovane Thao, che segna momenti di tenerezza e persino di comicità – esilarante la lezione di “virilità” dal barbiere italo-americano – e poi in quello del vendicatore solitario, quando i bulli del quartiere cominceranno a vessarlo con molestie e violenze, secondo il più classico copione della bande di quartiere. Lo stupro della sorella di Thao segna l’escalation tragica, il punto di non ritorno. Kowalski a questo punto rientra nello stato d’animo della guerra, ma sa che questa sarà la sua ultima battaglia, quella decisiva, in cui non può sbagliare, perché la vita non gli fornirà un’altra occasione per mettersi in pari con la sua tormentatissima coscienza. Solo alla fine, però, comprenderemo COME ha deciso di farlo. Kowalski, infatti, ha valutato tutto attentamente e ha deciso che la mossa migliore in questa sua partita a scacchi con la vita (o con la morte, fa lo stesso), è sacrificare se stesso, immolarsi per preservare l’innocenza di chi è ancora giovane – e forse anche per guadagnarsi una salvezza a venire, di cui però non è affatto sicuro. Kowalski-Eastwood, dopo una vita di personaggi violenti, anche se con una loro moralità, di occhio per occhio dente per dente, sceglie di uscire di scena da martire, offrendo l’altra guancia. E’ un finale quanto mai imprevisto, che in questo improvviso rovesciamento morale ricorda la Lorna dei fratelli Dardenne che in un attimo, con un solo gesto, riscatta un’intera vita di connivenza con la sopraffazione e la violenza. E fa commuovere. |
di Andrea Tosti
Come si può non amare Clint Eastwood? Nel suo cinema, classico per diritto di nascita e per un onore conquistato direttamente sul campo, riecheggia tutto il meglio del grande cinema americano. E, in fondo, questa sua ultima opera, non è forse un western da ultima frontiera? Non è Clint, allo stesso tempo, L’uomo che uccise Liberty Valance e l’ispettore Callaghan? Non è l’ultimo erede della frontiera che, alla volgarità e alla prepotenza incomprensibile della locomotiva generazionale, che si muove sulla frontiera del proprio giardino a ritmo di ingiurioso hip hop, preferisce il proprio passato? Il vecchio frigo può tornare ancora utile, e non allo stesso modo delle perline e del whisky per gli indiani. Il suo è un cinema d’autore, ormai universalmente riconosciuto, e non a torto. Un cinema che tira una linea dritta e sicura, pur fra quanto di buono e di cattivo si può trovare nei suoi film, un tagliente rasoio di forma che rassomiglia fisiognomicamente all’autore, come più volte si è voluto sottolineare. Uno stile riconoscibile e fedele a se stesso, teso, asciutto, come quel volto sempre più affaticato e reso glorioso dagli anni, una recitazione che da minima è diventata pian piano minimale, atmosfere nette, sotterraneamente squillanti, gloriose incursioni nella caricatura espressionista (Gli spietati), o nel fiabesco alla Tim Burton (come nel pericolosissimo finale di Million Dollar Baby). Ancora, un tema ripetuto all’infinito, quello del necessario e doloroso infrangersi/confrontarsi del nuovo sul vecchio, una precisa idea di cinema che si è andata affinando e raffinando negli ultimi anni: non è questa una sintetica, concisa, ma pur efficace definizione di poetica? Così procedendo Clint è arrivato a cavalcare al fianco di tutta una serie di anziani autori (De Oliveira, Rohmer, Chabrol, ma anche Ford, Preminger, Spielberg etc.) che portano o hanno portato avanti, cosa sempre più rara oggi come oggi, un’idea di cinema che è principalmente un’idea di poetica. Come agli altri autori citati, fra i viventi naturalmente, anche ad Eastwood si guarda ormai con fin troppo affetto, come al nonno saggio, all’anziano a cui far riferimento ma al quale si perdona qualunque piccolo errore. Sembra infatti arrivato anche per lui quel momento, apparentemente imprescindibile nella carriera di moltissimi grandi autori, di girare un film autoreferenziale, un film che riprende i temi cari all’autore ma dall’esterno, banalizzandoli quasi. Un film non tanto di Eastwood, insomma, ma alla Eastwood: Gran Torino appunto, in cui lo stile fagocita la poetica riducendola quasi a parodia. Successe lo stesso ad Herzog, ricordo, con Invincible. Anche nel caso di Gran Torino, come in quello del grande autore tedesco, sembra che un altro regista abbia trovato in una bancarella un manuale dal titolo “Gira anche tu un film come Clint” e si sia messo di buona lena nel tentativo di imitarlo. Non solo tutto il film è pieno di Eastwoodismi (recitazione digrignata, sequenza infinita di facce di pietra, ma portate al parossismo, alla parodia involontaria) e non solo ripropone, in maniera poco originale tematiche care all’autore (qui però eccessivamente banalizzate e telefonate (“Questi cinesi sono più simili a me dei miei parenti”, o qualcosa del genere), ma sembra voler riproporre in chiave più matura, tutta una serie di personaggi dell’Eastwood attore, con l’apparente intenzione di riabilitarli allo sguardo di questi tempi meno indulgenti. Primo fra tutti l’ispettore Callaghan, che di tanto in tanto riaffora dalla pelle dell’anziano attore. Il gioco diverte (gli epiteti razzisti rivolti alle varie minoranze sono davvero notevoli per fantasia e accumulo) e qua e là funziona, anche se sembra in larga parte fine a se stesso. Bisogna però riconoscere che gran parte della scarsa riuscita del film è dovuta ad una sceneggiatura che serve male la regia, squilibrata, nettamente divisa fra momenti drammatici e giocosi, ma senza sfumature, priva di un reale crescendo, evirata di quelle zone d’ombra in cui Eastwood si era recentemente calato con grande successo. Il finale, dall’intenzione iconografica cristologica, è quasi imbarazzante. Il lungo piano fisso finale sembra essere utile solo ai titoli di coda e a far uscire il pubblico dalla sala. |