Perchè sì |
Perchè no |
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di Roberto Castrogiovanni
Ospitiamo la recensione di Roberto Castrogiovanni uscita su Frameonline A Stefano Incerti non interessa raccontare la grande storia, bensì una storia piccola. Il regista non vuole affrontare il mondo delle ideologie o delle idee; preferisce scandagliare un territorio più basilare, popolato solo da azioni, reazioni, pulsioni, secondo una forma che Gilles Deleuze definirebbe dell’“immagine azione”. Protagonista è, infatti, un uomo che a dispetto del suo curioso soprannome, Gorbaciof, non ha nulla a che vedere con i grandi eventi che hanno segnato il XX secolo. Dietro questo pseudonimo si cela il napoletano Matteo Pacileo, contabile carcerario con il vizio del gioco d’azzardo che ha una voglia sulla fronte simile a quella dell’ex segretario sovietico. Nella traslitterazione storpiata di quel nomignolo – quella “f” al posto della “v” – c’è già tutto lo scarto tra il personaggio e la maschera, la deformazione grottesca di uno scherzo del destino. Il sottotitolo del film di Incerti potrebbe invece benissimo essere “La roba”. Perché nell’universo piccolo e buio di Gorbaciof esistono solo le cose; mentre le parole (spie di un pensiero già astratto e idealistico) sono quasi bandite. Ciascun comportamento ha come tramite un oggetto; i rapporti di forza, ma anche le relazioni emotive tra i personaggi sono calate esclusivamente in un approccio materiale, seguendo i dettami di un’istintività quasi belluina (non a caso il protagonista incontra un ragazzo che imita una scimmia). È questo straordinario senso di immanenza – in cui ogni azione si esaurisce solo in se stessa e non esiste nulla (una psicologia, una filosofia, una morale, una religione) all’infuori di essa – che la regia di Incerti riesce a concretizzare attraverso un occhio puntato sulla roba. Il fruscio delle banconote che Gorbaciof conta incessantemente allo sportello del carcere di Poggioreale, il clangore della serratura della cassaforte violata, la ruvidezza delle carte da poker che passano di mano nell’oscuro retrobottega di un ristorante cinese. È come se il racconto progredisse solo perché trainato dagli oggetti, che determinano come una forza d’attrazione sui personaggi, costringendoli ad agire di conseguenza e circoscrivendo così una catena di gesti deterministica che porta a un’ineluttabile conclusione. La stessa cosa sembra valere anche nella descrizione della relazione tra Gorbaciof e la cameriera cinese Lila. In questo caso le barriere linguistiche e culturali implicano l’impossibilità di una qualsiasi forma di comunicazione verbale, e determinano un tipo di rapporto fondato solo sulla corporeità e sulla dimensione materiale. Un paio d’occhiali da sole diventa così un pegno amoroso, mentre lo stato d’animo dei protagonisti è descritto ricorrendo a similitudini ancora una volta animalesche, come una tigre in gabbia o un pesce nell’acquario. La scuola teatrale napoletana, che in Gorbaciof è largamente rappresentata sia sul fronte attoriale che tecnico, sta facendo un gran bene al cinema italiano, riportando finalmente l’azione al centro della scena e recuperando tramite la narrazione per immagini l’essenza stessa della forma cinematografica. Presentato Fuori concorso al sessantasettesimo Festival di Venezia (2010), l’opera di Incerti si è meritata il lungo applauso attribuitogli dalla stampa se non altro per aver avuto il coraggio di ripudiare il didascalismo delle sceneggiature nostrane e una certa piattezza del racconto di marca televisiva, introiettata purtroppo ormai anche dalle produzioni su grande schermo. Va da sé che l’architrave su cui si regge l’intera costruzione filmica, il tassello insostituibile dell’incastro narrativo, è la mimesi Gorbaciof–Toni Servillo. Dopo Il divo l’attore sembra aver raggiunto un ulteriore stadio d’evoluzione interpretativa, in cui si trasforma in pura maschera svincolata ormai dalle tradizionali logiche di rappresentazione. Gorbaciof è un’entità costruita essenzialmente sul suo corpo: l’andatura dinoccolata, i tratti grotteschi del volto, la mimica irrequieta, le movenze selvagge. Un corpo-oggetto, quasi del tutto silente, che si rapporta al mondo seguendo solo una logica fisica e concreta, emblema dell’intero film. |
di Martina Federico Da uno che per i dieci minuti iniziali di un film non parla ti aspetti che la sua prima parola fermi il tempo. Ci siamo: un “afammocca!” sprezzante e potente. Ma bugiardo, perché non manterrà le promesse. Da un buffone che cammina in quel modo strano per dieci minuti non ti aspetti che vada a sedersi dietro uno sportello di ragioniere carcerario. Dove starà andando con quella faccia supponente che si ritrova, con la fronte corrucciata all’insù di chi ti guarda e ti deride allo stesso tempo senza bisogno di parlare? Se è triste pensare che l’impiegato dello sportello non ce l’abbia una vita da passare camminando all’aria aperta, è ancora più triste seguire uno per strada immaginando che vada chi sa dove per poi scoprire che va negli angoli più umidi della burocrazia delle galere. Incerti sceglie questo: lo porta da fuori a dentro. La tristezza del film sta tutta in quella scena; tutto il film è una metafora allargata di questa scena o, viceversa, questa scena è una metafora condensata di tutto il film. La morte mediocre della fine non è altro che la degna conclusione; l’inizio misterioso cede il posto al vuoto. Si potrebbe parlare di coerenza, di corrispondenza espressione-contenuto, mandando in visibilio le radici della semiotica francese, ma, purtroppo per Gorbaciof, vite dai giganteschi rimbombi interiori per vacuità, sono state raccontate dai migliori film. Un contatore di soldi di professione (“ca s’ fott i sord”) con una voglia scura enorme sulla fronte e la faccia da Stanlio, le basette squadrate (se non l’avete mai guardato bene in faccia, questo film è una buona occasione: ha degli occhi giganteschi), si muove in un arcipelago di isole squallide come la sala giochi di una nave da crociera, senza un incastro decente, però. Più che un intrigo, una giustapposizione; più che una storia, dei blocchi: finisce uno, inizia l’altro. Gorbaciof è un film senza ostacoli e senza tensione, che scorre liscio, verrebbe da dire: che scorre poveramente. Spoglio come un albero in autunno. Bidimensionale. Le cose non si complicano, anzi si disfano, evaporano. Eppure di carne al fuoco ce ne sarebbe. Professoroni di Giurisprudenza alla Federico II immischiati col malaffare, milionari, che si riducono a giocare a poker nel retro di un ristorante cinese, dove la bella figlia del proprietario (una recitazione indecente), oggetto del contendere, scioglie il cuore al duro Toni Servillo, e ci riesce in meno tempo di quanto impieghi una mentina a squagliarsi nella tua bocca. Il cambio repentino o, meglio, il sopraggiungere dell’inaspettato (il cuore tenero di Servillo), che pure dovrebbe stupire lo spettatore, non è supportato da una sceneggiatura (a cui collabora lo scrittore De Silva) adeguata che ne valorizzi le potenzialità (lo stesso discorso vale per il giocatore di poker che si scopre essere parte dell’ alta avvocatura napoletana). Servillo è immenso, e il film gli va stretto come le maniche delle camicie che indossa. In questo film, la sua fama di attore è direttamente proporzionale all’attaccamento spettatoriale ai suoi personaggi precedenti. Muto, coi capelli ingellati all’indietro è ancora Tony Pagoda; i silenzi infiniti delle Conseguenze dell’amore sono quelli. Un’arma a doppio taglio, perché Gorbacióf non è né l’ uomo in più né Titta di Girolamo. |
Ricordo aver visto questo film a Venezia e essere uscita dalla sala pensando “Pas mal”. e se ci ripenso, il film è pas mal. Certo Servillo è mattatore indiscusso, ma il mondo che abita non lo trovo deludente. anzi, trovo lo squallore e la banalità del decor verosimile, tristemente possibili. e tutti gli intrighi possibili rimangono meteoriti perchè, almeno secondo me, non fanno parte del film. il film è compassato, senza illusioni, squallido e triste. è insomma fedele alla sua storia.
La cameriera cinesa recita male, menomale.. se recitava come la bacal era preoccupante.
Delle cose italiane che ho visto quest’anno ( ammetto di non averne viste molte) mi sembra che gorbaciof sia, come ho detto, pas mal.
Stasera cenavo con OM, in un koreano a vienna e parlavamo di film pas mal. OM mi ha detto I don’t really need films pas mal, I need very good films. I agree, ma d’altra parte che questo non sia il migliore dei mondi possibili lo sapevamo già.