Una città e due anime disadattate e sofferenti. Nevrotica e ribelle la prima, psicotica e congelata la seconda. Somala ed immigrata una, romana l’altra. Giovane quella scappata da una delle mille guerre africane poco mediatiche; matura ed impazzita quella tutta spesa nei bassifondi della capitale. Senza soldi la prima, senza problemi economici la seconda. A guardare queste due facce di una stessa sofferenza, e di una stessa profonda solitudine, c’è una Roma aggiornatissima al presente, una capitale ai confini del raccordo o tra i palazzoni dell’Esquilino, tra autosaloni di periferia e marciapiedi intasati di altre vite in corsa, immigrate e non. Incontriamo una freddissima villetta di periferia ed un ristorante notturno chiuso al pubblico. Freddo, pasoliniano, all’improvviso violentissimo. Notte e giorno, non c’è molta differenza, sempre grigio risulta il clima dell’opera, al di là dei colori, dell’ora e della luce scelte dal film. Si aprono pochi momenti di speranza, un incontro, un sogno nel verde e nell’ossigeno della montagna, un finale di speranza, reale (?) o solo sognata (?).
Esordio ambizioso e interessante, quello di Claudio Noce. Ancora giovane, classe ’75, e già pluripremiato autore di cortometraggi: Aria vinse un David di Donatello qualche anno fa, e adesso, questo realistico e surreale Good morning Aman, passato con successo a Venezia, alla Settimana della critica, si mostra come opera (prima) imp(r)egnata di realtà e di stile. E’ la storia di due individui diversi per età e vissuto, eppure accomunati da una sofferenza interiore causata dalla propria storia umana. Il primo è un ragazzo somalo, Aman, appunto, ben interpretato da Said Sabrie e venuto a Roma all’età di quattro anni, dopo aver visto con i propri occhi la tragedia della guerra, e la morte dei suoi cari da vicinissimo. Oggi parla romano ed è amico di storie come la sua, che vorrebbero le scarpe della Nike, che sentono Roma come casa loro, inospitale ma loro, ed hanno capito che di speranze, in questo paese, ce ne sono meno che altrove. Ecco perchè il migliore amico di Aman parte per Londra all’inizio del film. Per fare il cameriere, certo, ma inserendosi in un mercato del lavoro che, per quanto instabile, precario e fatto di sfruttamento, è sicuramente più movimentato e regolare di quello italiano. Anche Aman vorrebbe avere lo spazio necessario per vivere una vita dignitosa, ed efficaci, in tal senso, risultano sia le sequenze dello spazio fisico che egli cerca andando sul terrazzo dell’edificio, sia quelle dell’autosalone nel quale il giovane lavora come lavamacchine. Conosce le parole giuste per vendere il prodotto, l’intelligente e cupo Aman, ma il suo timido e sano desiderio di crescita, viene troncato dalla violenza verbale del direttore. Potrebbe sembrare stereotipato, quest’ultimo personaggio, ma la violenza sub razzista che domina i comportamenti delle masse è una realtà ben percepibile nel quotidiano, basta volerla sentire, e la retorica del padrone che umilia l’immigrato è tenuta a bada dal regista grazie ad una sorta di semi fuori campo sonoro. Piccolo segno più, mettevano gli insegnanti a scuola, una volta.
Il secondo protagonista è Teodoro, interpretato da un validissimo Valerio Mastandrea, da tempo ormai nei panni di personaggi inquieti e sofferenti. Nel film è un ex pugile depresso e sull’orlo della follia. Un uomo lacerato dal senso di colpa e da un passato di sofferenza ed errori. Queste due vite ai margini si incontrano una notte sul terrazzo di un palazzo dell’Esquilino e scoprono di avere in comune un dolore che non fa dormire e che tormenta ogni istante della propria vita. Tra i due nasce un rapporto ambiguo, che il regista non spiega fino in fondo, ma che è bravo a scoprire e dettagliare con i tempi giusti, coinvolgendo lo spettatore nella vicenda e riempiendo i dialoghi dei protagonisti di sfumature accattivanti.
Non è solo un racconto sull’immigrazione, questo piccolo Good Morning Aman (anche se di immigrazione si parla e il film va ad ingrossare lo scaffale dei film italiani che continuano a certificare i cambiamenti socio-culturali in atto nel paese), e nemmeno una storia di amicizia, o comunque non soltanto: c’è il desiderio di narrare il difficile cammino che conduce all’identità dell’essere umano, al di là degli steccati sociali e culturali, appunto. L’esordio di Noce fonde due percorsi di formazione, uno classico e l’altro meno, il primo positivo, forse, e il secondo liberatorio attraverso un epilogo tragico. In una variazione sul tema classico del doppio, il regista adotta un linguaggio realistico e al tempo stesso sensibile alla forma, inserendo nella narrazione momenti di sobrio surrealismo, che fanno di Good Morning Aman un’opera per certi versi in disparte rispetto a tanto cinema italiano “impegnato”, eppure legato al palo di una forma in qualche modo standardizzata. Tra i modelli di riferimento dichiarati dal regista ci sono Scorsese e Cassavetes, ma anche, aggiungiamo noi, qualche istintiva eco registrata dalle opere di Paolo Sorrentino e Daniele Vicari. I personaggi hanno una fisionomia piuttosto delineata, costruita anche attraverso interpretazioni convincenti. Eppure quell’anima solo intuibile, sfiorabile, non riusciamo ad afferrarla con sicurezza, a toccarla con decisione e ad “innamorarci” di quel dolore. Ed è un peccato.
Scatola del film, come detto, è una Roma senza fontane e senza librerie. Paesaggio desolante, eppure affascinante, abitato da ultime condizioni esistenziali italiane ed immigrate, come quelle accostate da Francesco Munzi nel film Il resto della Notte e da Carmine Amoroso in Cover Boy: due film davvero interessanti, a cui questo esordio di Noce può essere, con le dovute precisazioni, accomunato. Altre considerazioni: ci sono, nel film, una quantità considerevole di volti di contorno: tutti scelti con molta cura e precisione. Facce realistiche e molto espressive. Tra loro spunta una manciata di volte quella sempre bellissima di Anita Caprioli, nei panni di una vittima italiana impaurita ed incapace di credere nei propri sogni. Da segnalare la precisione e l’insistenza con cui il regista descrive, lì con prezioso realismo, gli ambienti e il quotidiano di un’immigrazione ormai lontana dal barcone e dalla costa. C’è il segno, in Good Morning Aman, di una irreversibile realtà multietnica italiana, e questo esordio è, in tal senso, un film ben inserito nel suo tempo.
Valerio Mastandrea non si limita solo a recitare. Egli ha creduto nel progetto fino ad entrarci nelle vesti di produttore. Il che non significa averci messo dei soldi e nemmeno essere andato sul set quando non doveva girare scene che lo riguardavano. Ma ha partecipato alle riunioni organizzative ed ha messo la sua esperienza ed il suo nome al servizio del film.
Sono d’accordo con quanto scrivi. Però la mia visione ha partecipato (“innamorarsi” del dolore, di un qualsiasi dolore, alla fine non è che un moto votato ad ottenere catarsi e consolazione. Con il corollario di vampirizzare sempre un po’ troppo l’oggetto dell’innamoramento) del dolore impresso nelle immagini, senza paura di venirne travolta, vista la bravura del regista nell’aternare vuoti e pieni, osservazioni d’ambiente e accelerazioni drammatiche, facce e simboli.