Il film Stalker muove da un racconto di fantascienza dei fratelli Strugackij: si immagina che, forse a seguito di un soggiorno di extra terrestri, un certo luogo, denominato “La Zona” sia rimasto deserto e che vi siano avvenute strane mutazioni. Lì secondo la voce popolare, in una casa diroccata esiste una stanza, entrando nella quale si realizzano i desideri più intimi e segreti del fortunato visitatore. Ritenuta pericolosa dalle autorità, quest’area è stata interdetta a chiunque, isolata con il filo spinato e perennemente sorvegliata da squadre armate. I drastici ordini impartiti vengono tuttavia violati da alcuni clandestini che si avventurano in questa terra di nessuno condotti quasi per mano dagli stalkers, strani personaggi che sfidano la morte offrendosi come guide per attraversare La Zona. Uno scrittore e uno scienziato si sono affidati a uno di questi esploratori e si addentrano in questo Luogo che Tarkovskij definisce della memoria e dell’anima: apparentemente un paesaggio naturale, in effetti una costruzione metaforica. Infarciti di elucubrazioni razionalistiche, increduli, imbevuti di materialismo, incapaci di tollerare l’immaginazione e di intuire la presenza di energie ancora sottratte alla loro conoscenza, gli intellettuali di Tarkovskij sono commiserevoli in confronto ad un uomo che ha il dono dell’innocenza e della fedeltà ad una propria sostanza non priva di mistero.
Il film mette bene in mostra come lo Stalker trovi nella “Zona” il riscatto alla sua esistenza di anormale, folle e reietto; al di là del filo spinato, infatti, egli non possiede nulla, gli hanno tolto tutto, persino la dignità. Il film si apre con una scenografia monocroma di un interno, un bar vuoto; subito dopo, la macchina da presa con una lenta carrellata fa intravedere allo spettatore la camera da letto dello Stalker: un luogo spoglio, desolato. Anche il paesaggio al di fuori della casa dello Stalker ha le stesse caratteristiche, e Tarkovskij lascia che sia ancora questa monocromia a descrivere un’atmosfera nebbiosa, putrescente, fangosa, forse a voler sottolineare un paesaggio dove si scorgono gli ultimi segni degradati di un processo irreversibile in cui si spengono la natura e l’uomo. Man mano che i tre viaggiatori si avvicinano alla Zona la semioscurità iniziale del paesaggio industriale cede ad una nuova luminescenza ed arriva ad un perfetto colore che sottolinea un improvviso e misterioso rigoglio della natura, una terra diversa che si avvale di un diverso linguaggio. Ci si stacca immediatamente dall’esperienza più ordinaria della quotidianità per entrare in un universo di possibilità immaginate, in un percorso accidentato tra macerie e scheletri di cose in cui solo lo Stalker riesce a districarsi.
Il percorso verso la Stanza viene risolto da Tarkovskij in una serie di primi piani, a sottolineare la caratteristica di viaggio interiore, di tragitto della coscienza, come se la Zona fosse un luogo senza spazio e un momento senza tempo. È ciò che Deleuze definisce “immagine – affezione”: L’immagine – affezione è il primo piano e il primo piano è il volto. Attraverso il volto dello Stalker si percepisce quel qualcosa che va oltre la dimensione data e che la Zona rappresenta: essa è per lo Stalker “il posto più silenzioso del mondo” e gettandosi sull’erba alta ascolta il pulsare della terra. Lo Stalker personifica, infatti, la dimensione del visionario, del pazzo che non fonda il suo vivere su basi razionalistiche, su un circoscritto universo di certezze ma basa la sua concezione della vita sul sentire e non sul capire, su quello “sguardo” che come un’epifania joyciana rivela improvvisamente altro da sé: rapimento, annunciazione, trasfigurazione. Viene in mente osservando questo strano personaggio, il dostoeviskiano principe Myskin (l’Idiota), il “colpito da Dio” considerato l’oggetto di un favore trascendente e misterioso, tanto più connaturato e profondo, quanto più incomprensibile e oscuro. Lo Stalker possiede un dono, una forza in più che né lo scrittore né lo scienziato possiedono, ed essa è l’umiltà come fenomeno dello spirito, prerogativa dei deboli.
Giunti di fronte all’entrata della Stanza, come era forse facile prevedere, nessuno dei tre viaggiatori oserà entrare: dubbi e paure bloccheranno gli intellettuali, l’ossequio al fascino del mistero lo Stalker. La macchina da presa li inquadra a lungo, immobili davanti al “limitare dell’essere”, confine oltre il quale si spalanca una libertà così vasta che pochi possono accettare (e già il Grande Inquisitore aveva ammonito che essa è peso, fardello). La paura della libertà (dostoevskijanamente intesa) e la mancanza di fede impediscono ai due intellettuali di entrare nella Stanza dei desideri e inducono addirittura lo scienziato a voler far esplodere una bomba per distruggere un luogo razionalmente incomprensibile.
La fede nasce senza garanzie, senza prove necessariamente convincenti, ed è proprio questo che i due non colgono, o meglio, non vedono. Dopo la lunga sosta sulla soglia della Stanza il film ritorna alla monocromia iniziale e i tre si ritrovano in quel bar dove nulla accade o forse tutto è già accaduto; appare la figlia dello stalker, una bambina paralitica forse vittima delle radiazioni della Zona. E’ lei che chiude il film, questa bambina che suggerisce un totale rovesciamento di ogni darwiniana certezza, giacchè la regressione fisica, il percorso a ritroso dell’esserino offeso ripropone il tema dell’innocenza come contenitore di ogni miracolo: uno spirito potente può assumere un corpo infermo, imperfezione del nostro mondo… La macchina da presa, con un lungo piano – sequenza, inquadra questa bimba che con il solo guardarli fa muovere gli oggetti, ed è come se Tarkovskij volesse sottolineare il misterioso potere dell’ignoranza contro ogni sapere, contro ogni illusorio progresso.