All’uscita dalla sala, venivano in mente facili ironie e giochi di parole: questo film non decolla. Oppure, stavolta Almodóvar vola basso. Il fatto è che chi scrive continua a considerare il maestro manchego uno dei più geniali registi viventi e quando è costretto ad ammettere che da lui si sarebbe aspettato ben altro si sente perplesso, deluso, quasi tradito.
Già il precedente lavoro, La pelle che abito, non era sembrato totalmente riuscito: troppa carne al fuoco, troppi colpi di scena, troppe soluzioni azzardate, al limite dell’inverosimile. Ma si trattava di un peccato di hubris, tutto sommato. Stavolta sono mancate ispirazione ed ambizione, e la speranza è che si sia trattato di una semplice scossa di assestamento, un divertissement in attesa di tempi migliori.
Si diceva dei giochi di parole sul volo. Gli amanti passeggeri è ambientato infatti su un aereo in viaggio da Madrid a Città del Messico, che a causa di un’avaria è costretto a girare in tondo su Toledo, in attesa di una pista utile per un atterraggio d’emergenza. La vicenda corale coinvolge i piloti, gli assistenti di volo e alcuni passeggeri della classe business. Quelli che viaggiano in economy sono invece stati narcotizzati, per evitare spaventi, ma soprattutto polemiche e proteste. L’aereo diventa progressivamente uno scalcagnato scenario dove i personaggi raccontano le loro storie e si preparano al peggio sfogando frustrazioni, pulsioni sessuali varie ed eventuali, e annegando paure e dispiaceri nell’alcool e nella mescalina. Fino all’inevitabile (si tratta pur sempre di una commedia) salvataggio.
Per il suo diciannovesimo lungometraggio Almodóvar si affida a una banda di suoi fedelissimi, più o meno noti al di fuori della Spagna. Javier Cámara (Parla con lei) è uno steward incapace, a causa di un trauma, di mentire. Lola Dueñas (Volver) una sensitiva che intende perdere la verginità in volo. Cecilia Roth (Tutto su mia madre) un’attricetta in disarmo che custodisce segreti intimi e piccanti degli uomini più influenti, compreso il Re. Non manca un cammeo di due divi che molto devono al regista, Penelope Cruz e Antonio Banderas, in una delle pochissime scene ambientate sulla terraferma. Sono tutti bravi, compresi i piloti, gli assistenti di volo e gli altri passeggeri della prima classe, tutti svolgono diligentemente il proprio compitino, e se non vanno oltre non gli si può certo addossare la colpa.
Il problema è che le gag scatenate, il cattivo gusto perseguito con coscienza, il libertinaggio sessuale predicato da Almodóvar, arrivavano con la forza di una sconvolgente e necessaria ventata d’aria fresca nella Spagna appena uscita dal franchismo. Oggi non sorprendono più nessuno, o almeno fanno molto meno ridere. La scena forse più riuscita del film, quella in cui gli steward intrattengono i passeggeri ballando sulle note di I’m so excited delle Pointer Sisters, è esilarante, irresistibile magari, ma fine a se stessa. Inoltre, dopo gli esordi all’insegna del grottesco, erano arrivati una serie di capolavori in cui gli aspetti farseschi erano in perfetto equilibrio con una serietà e un rigore impeccabili.
Stavolta viene invece da chiedersi a cosa serva tutto questo. Si può tentare di leggervi una qualche allegoria, sulla società alla deriva e senza meta, sulle classi popolari cloroformizzate mentre i ricchi banchettano e si ubriacano, ma forse la soluzione, come insegna la teoria del Rasoio di Occam, è la più semplice: il nostro beniamino voleva tornare alle origini e alla commedia brillante, ma non ha fatto i conti col peso del nome che porta e con le aspettative che precedono ogni sua uscita (“Se non c’è un film di Almodóvar non so che fare il sabato sera”, era l’aforisma-omaggio di Woody Allen qualche anno fa). Probabilmente si è divertito parecchio lavorandoci; noi, fiduciosi, aspettiamo la prossima volta.
Sono d’accordo, un film da 4 in pagella (ma su una scala da 1 a 1000), perché da Almodovar non ci si aspetta un film di così bassa levatura.