RIVIVIMI! ohi vita.
Michel Piccoli, in gonna, calzetta e libro posato sul grembo, interpreta la madre dello stralunato protagonista. E questo potrebbe bastare a dare la cifra dell’ultimo film del georgiano, trapiantato presto a Parigi, Otar Iosseliani, da sempre interessato alla frattura tra l’uomo e l’ambiente sociale che lo obbliga e condiziona.
E allora lenti nuove per guardare la realtà, scarpe con le rotelle con cui incontrare fisicamente l’altro, oggetti tronfi e allusivi da lasciare e altri vecchi ma forse ancora utili da riportare alla luce. Sì che ai vestiti volgari e firmati, alle statue enormi ma vuote, al tempo inutilmente libero mascherato in un’occupazione permanente (i finti giornali economici da leggere, le firme sui documenti neanche sfogliati) si sostituisce l’odore caldo del distillato appena uscito dall’alambicco rivitalizzato, il suono ubriaco del piano tutto polvere risuonato, le voci ciancianti delle donne e i loro sguardi pieni di calore e di ritrovato desiderio, in una commedia che è forse la nuova edizione della vita di un uomo. Un “rivivere” che è fatto di sottrazione e di tempi lunghi, lunghissimi, quanto può esserlo una dichiarazione d’amore scritta a caratteri cubitali su un marciapiede in una bellissima sera d’ottobre a Roma. La pioggia dispettosa, si sa, combutta più col tenebroso novembre. Rivivimi! Ovvero vivimi ancora, vivimi meglio.
Nel movimento di questa realtà lenta, in cui gli incontri sembrano prodotti da un caso votatosi alla causa esistenzialista, il protagonista, un ex ministro di mezz’età cacciato dal suo ufficio, ritrova nell’autunno della sua vita il piacere della vita pratica e il senso più verace della cultura, che forse s’esprime bene nella metafora del lavoro da giardiniere che piglia a fare: la cura, l’impegno e la fantasia applicati ad esprimere e a dare continuità ad un’attitudine, a un qualcosa che si sente utile, vivo, e di cui si intravede il fine. Foss’anche una canzone che si sentiva scorrere e fluire e che si decide di cantare, così da sottrarla alla dispersione della continuità del tempo. Iosseliani costruisce quindi delle scene che ripetono tante volte situazioni simili (vagabondaggi, divagazioni, buffi incontri, pasti interminabili), lente variazioni sullo stesso tema che presto provocano una sensazione di incantamento, quasi una girandola d’armonie condivise. Seguendo un suo adagio, il regista, ripetendo ininterrottamente piccole unità musicali che si susseguono in un ritmo non reale, ahimè, ma di probabile composizione naturale, ci dà l’occasione di riaccorgerci di quanto sia profonda la possibilità della nostra visione (gli animali disegnati sul muro della trattoria, di lì a poco venduta e imbiancata, che riproducono quelli visti realmente, in un gioco di immaginifici specchi) di quanto l’esistenza possa essere leggera e di effettività inaspettatamente magica, se svuotata da ruoli e oggetti di pesante e volgare simbologia, di come sia possibile liberarsi dallo scorrere implacabile del tempo macchina per ritrovarsi infine in un tempo che è il proprio, e che, cercato perso e ritrovato, va a tutti i costi curato e assecondato. Anche perché è un tempo tutto terreno.
Passi, quindi, che il rifiuto degli status borghesi volga quasi sempre a favore di un crepuscolarismo consolatorio, passi anche il leitmotiv d’anarchico eco per il quale l’unica rivoluzione possibile è quella personale, passi, un po’ meno effettivamente, che la donna sia ridotta in bozzetti di madre, cuoca, parassita, ex moglie bisbetica e al meglio prostituta, passi, sì, perché a dirla franca è stata una visione di ritrovata libertà, uno di quegli scherzi d’autunno in cui accomodare le gambe sulla poltrona della fila davanti, a volte un morbido velluto.
N.B. Iosseliani sul canto: “purtroppo oggi nessuno canta più, e la perdita della cultura del canto è molto significativa dei tempi che stiamo vivendo: non si può cantare da soli, un’armonia è composta da più voci, non si può raggiungere se manca la compagnia. Il canto era la manifestazione di una gioia condivisa e uguale per tutti. Anche nel mio paese,la Georgia, il canto era talmente diffuso che chi non aveva orecchio era quasi emarginato, le ragazze non lo sposavano di certo uno stonato. Tutti cantavano. Poi, con la nascita del bel canto, il mondo si è diviso tra chi canta e chi sta a sentire. Oggi il canto è diventato solo una professione, non più un’attività sociale.