“Io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna” (Italo Calvino).
Uno dei molti meriti del film di Matteo Garrone Lo cunto de li cunti è quello di “mettere in scena” l’essenza della fiaba, intesa come meccanismo essenziale di situazioni dalla logica allo stesso tempo ferrea e surreale. E di farlo, appunto, illustrando splendidamente alcuni dei racconti di Basile lasciando che il racconto si racconti da sé, senza alcuna rivisitazione psicanalitica a posteriori (un approccio assolutamente legittimo e che produce talvolta bellissimi film, come il sorprendente Barbablu della Breillat).
Garrone coglie dunque l’essenza della favola, rispettandone la spietata e assurda relazione di causa/effetto, dove vige l’infantile e narcisistico immediato desiderio di appagamento di un impulso primario (la maternità, la bellezza, l’amore, il sesso). Il destinatario della favola, infatti, è il bambino, che ancora non sa che questo rapporto tra desiderio ed esaudimento è destinato ad essere quasi sempre frustrato e che quindi è l’unico essere in grado di accettare senza discutere la logica della favola. Anche quando questa si manifesta nella sua forma più grottesca, sanguinaria e archetipica (ben lontana dal piagnucoloso moralismo di Andersen) in cui i padri sacrificano le adorate figlie, le sorelle si fanno scorticare e le mogli sacrificano i mariti pur di avere un erede e sono capaci di uccidere i figli altrui, senza alcuna empatia per la maternità di un’altra donna che non sia se stessa.
Davanti agli stereotipi favolistici (orchi, draghi, streghe, animali fantastici) Garrone non rielabora, non “gioca”, anzi li prende assolutamente sul serio, li rispetta dialogando con loro e senza bisogno di dare di gomito allo spettatore su tutta la inevitabile simbologia psicanalitica di cui le favole sono cariche e di cui peraltro lo spettatore si rende benissimo conto da solo. E la messa in scena deve essere all’altezza dell’immaginazione infantile in cui dominano gli opposti bello/brutto, ricco/povero, giovane/bello: quindi spaventosa, bellissima, orrida, “in cui il sublime si mischia col volgare e il sozzo” (sempre Italo Calvino).
Il film sfodera dunque elementi stilistici visionari e barocchi di straordinaria eleganza e bellezza sotto cui si annidano miasmi vagamente mortiferi che riecheggiano certo Greenaway, ma che più spesso sprizzano proprio dal sangue, dalla carne martoriata, dalla violenza e dalla morte una vitalità dionisiaca e uno straordinario senso del cinema inteso prima di tutto come spettacolo, lanterna magica che ti lascia a bocca aperta. Come il razzo che entra nell’occhio della luna di Méliès, o come le rutilanti invenzioni ispirate al folklore arcaico giapponese di Miyazaki (due adulti che, come tutti, sono stati bambini, ma che, come pochi di loro, sono capaci di ricordarselo).
sono assolutamente d’accordo con te, Garrone coglie l’essenza della fiaba, ed è straordinariamente elegante e avvincente