“In fondo in ogni visitazione dei luoghi portiamo con noi questo carico di già vissuto e già visto, ma lo sforzo che quotidianamente siamo portati a compiere, è quello di ritrovare uno sguardo che cancella e dimentica l’abitudine; non tanto per rivedere con occhi diversi, quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo”. (Luigi Ghirri, Paesaggio italiano, 1989). 

Dopo un affaccio sulle cupe nubi novembrine, che dalla prospettiva del balcone di Villa Medici sembravano tanti preti vestiti a festa intenti a ballare un foxtrot –tanto abbaglia questo posto situato sulla collina romana del Pincio-, il super 8 dilatato e sovraesposto in cui appare e scompare il limitare di un deserto, accompagnato dal sonoro ipnotico di Christian Fennesz (Endless summer), ci hanno immerso di colpo nella sorprendente visione di Gabbla, film del 2008 del regista algerino Tariq Teguia.

Catturare l’errore, gli scarti, eleggere a segno la falla, seguire i detour casuali, così che tutto quello che viene messo in disparte nel processo creativo in questo modo diventa il processo creativo, è stato detto della glitch music di cui Fennesz è uno degli esponenti di punta, e ciò situandosi non molto lontano dalla ricerca portata avanti dal quarantenne Teguia nel suo cinema politico, esistenziale, visionario.

Nei suoi film ci sono le contraddizioni di un paese, l’Algeria, da una parte ancora bloccato da conflitti, fondamentalismi e immobilità, dall'altra disteso, con curiosità e passo aperto, verso nuovi orizzonti, nuovi modi di abitare, di vivere e muoversi lungo e oltre le frontiere. “Cerco di descrivere una varietà di paesaggi compositi, un’Algeria urbana, dell’interland, e quella lontana, del quasi abbandono, contemplativa, meditativa –dice il regista-. Fare cinema è creare immagini, ma non solo: cerco di mettere frontalmente diversi regimi espressivi e tipologie di parola: l’itinerario è fare esperienza, mettersi alla prova. L’Algeria è un paese in transizione verso la democrazia, ma che solo qualche anno fa poteva diventare islamico. Oggi è caratterizzato da un’agitazione permanente e il film parla di questa incertezza, di questa continua contrapposizione tra immobilità e spinta verso il cambiamento, di un paese che aspetta, che non sa dove andare”.  

La dimensione dello spazio rappresentato, allora, che è il deserto collocato nel sud dell’Algeria ed è l’incontro del protagonista, un uomo in crisi, con una ragazza dell’Africa più profonda in fuga verso l’occidente, dà la misura anche dei tragitti migratori, delle incurvature e dei ritorni che ne invertono il corso. La ragazza confiderà infatti a Malek, l'uomo, che è stanca e che desidera tornare a casa. Da qui, da questo doppio movimento, comincia il viaggio dei due nel deserto.

Malek di mestiere fa il topografo. E’ un uomo abituato a misurare lo spazio, le distanze, ma che, dopo l'ennesima attesa, finirà per abbandonare gli strumenti di precisione con cui lavora per perdersi nel rischio e nell’ignoto vitale del viaggio. Il paesaggio diventa allora, e simbolicamente, lo spazio che si apre su eventi e personaggi. Nel far questo il regista crea delle rotture, adotta lunghi silenzi, scegliendo di cucire insieme un cinema originale e non piegato alle necessità dell’identificazione. In questa direzione, Teguia arriva a desertificare innaturalmente lo spazio sonoro affinché lo spettatore possa tendere meglio l’orecchio, possa percepire in modo più sottile il senso di quello che accade. I paesaggi sonori, nel suo cinema, vanno infatti di pari passo con quelli vivi.

Pur non trascurando fatti e dettagli, casuali o meno, che gli permettono di restituirci il senso di realtà (clandestini, pastori e gente che lavora attraversano il suo film), l'ottica del regista è dunque quella di reinventare gli spazi fisici e sonori costruendoci attorno e dentro dei microeventi con cui sollecitare l’attenzione, e rompere le abitudini, di chi guarda. Così facendo, Teguia ci regala dei nuovi strumenti con cui poterci orientare nello spazio e nel tempo. 

Il film è anche una storia di una sparizione -Malek è infatti un uomo a metà. Ma questa condizione limitata, che suggerisce un ego ridotto, è proprio la premessa, per così dire fondativa, che consente il cambiamento: solo se si è a metà si può far spazio al resto. Così che poi il medesimo spazio, di ritorno (all'interno della relazione), si amplia e muta.                 

L’attenzione di Teguia per le immagini è massima, ogni inquadratura sembra avere la composizione di un quadro o di una videoinstallazione, come se la vita, di suo, non avesse una direzione coerente e solo il caricarla di senso (politico, artistico, esistenziale, di vissuto) contasse. La soggettiva senza sonoro del treno che parte dalla stazione, ad esempio, ricorda i Lumiere e la nascita del cinema così come ricorda la nascita come evento e le possibilità e aperture del viaggio -sentimenti e necessità a mano a mano sempre più presenti nel film. Il viaggio diventa in questo modo spazio verso l’altrove, l’altro, il cambiamento. E ciò, se non rifiutiamo lo sforzo di vederlo, è anche molto eccitante.

Il film, si direbbe circolarmente, finisce con un’inquadratura sovraesposta in cui il deserto, oltre i punti di riferimento, le misure e le frontiere, diventa pura luce. Così che come il topografo finisce per perdere la sua distanza di sicurezza dalla realtà (esteriore e interiore), così i rivoluzionari, protagonisti di dibattici politici disseminati in tutto il film, finiscono per perdere la rigidità e l’immobilismo di certi schemi ideologici a favore di un’idea di libertà giocosa, fisica e dionisiaca (“camminare rende liberi”).

One Reply to “Gabbla (Nelle terre) di Tariq Teguia – Proiezione a Villa Medici”

  1. Le désert, l’horizon, l’infini….la liberté, la vie.

    Gabbla, come ha tenuto a sottolineare Teguia, sta per territori interni ( interiori) nel profondo della sua Algeria percorre e ricerca in parallelo tracce vitali, sequenze di immagini fotografiche cariche di sensazioni visive musicali ma anche di silenzi, silenzi che parlano alla nostra anima in cui si alterna, in un primo momento, il limite calcolato della mente, della fisicità finita degli orizzonti, di caravanserai chiusi e desolati abitati da ombre e realtà tristi e senza uscita.

    Per giungere al vuoto o forse solo all’incapacità di riempire e di fare pieno, quante volte un uomo e una donna si incontrano e l’umano si cerca e si scopre e si è sopraffatti da una vertigine di vuoto che ora diventa vitale e dal pieno di un viaggio, di due vite parallele, due esseri chiusi nei loro mondi che si dispiegano e aprono alla reciproca esperienza, e gli orizzonti vasti prima simbolo di incomunicabilità danno nutrimento allo scambio comune e intimo. Il viaggio è fatto di tante piccole cose che porta all’accettazione e al superamento di quello che si è nel confronto di un percorso comune…l’assenza di suono ti porta su di un treno in un catastrofico paesaggio di desolazione, e pure, quanto si corre su quel treno carico di vitalità silente.

    Per arrivare alla scena finale del film in cui c’è un dissolvimento della figura umana in un luce accecante il risultato della capacità di raggiungere l’altro e se stessi attraverso la libertà, quella libertà che annulla le dipendenze che permette di vivere uno scambio con gli altri e di accogliere per crescere.

    I miei occhi sono ancora pieni di quella luce, luce vitale che ha quell’enorme capacità di farci sentire per un attimo lontani dal legno scricchiolante del teatro, luce piena di energia che rende il consapevole bello.

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