di Fabrizio Funtò /Il grigio plumbeo di un cielo sempre tardo-autunnale incombe su un’isola anonima.
Ma dove siamo? Ma è veramente Lampedusa? Non lo so.
Ma che anno è?
Questo è il disorientamento che traiamo dal “lirismo minimo” di Gianfranco Rosi, che il Festival di Berlino ha appena applaudito.
Due storie parallele si intrecciano — e si rispecchiano una nell’altra — in Fuocoammare. Come i due binari di un nuovo DNA che si avvitano uno sull’altro e non si toccano mai, ma che dobbiamo ancora scoprire e analizzare.
Le micro storie degli abitanti dell’isola. Samuele, uno spiritello desideroso di conoscere il mondo, Pippo alla console della radio locale, perso nelle dediche dettate in siciliano e proclamate in Italiano, Zia Maria e la Nonna di Samuele, sempre in casa a riassettarla, un pescatore di ricci, in apnea.
I personaggi sembrano quasi ostinarsi a ripercorrere ogni giorno la loro strada, prigionieri dell’isola che fa da sfondo alla loro esistenza, che li compenetra e li inchioda.
Dall’altra gli alieni. I corpi estranei.
I profughi neri, i salvatori bianchi.
Un’ondata di nera carne africana (lo dico volutamente con crudezza), recuperata da militari e volontari isolati — già: “isolati” — ermeticamente nelle tute bianche.
* * *
E qui scopri il miracolo delle strutture narrative. Il miracolo di Gianfranco Rosi, dobbiamo dargli atto. Quando analizzi il DNA di un fenomeno, forse non serve scrivere una storia, una sceneggiatura, i dialoghi. Non serve immaginare scene, impostare gag, inventarsi piani sequenza mirabolanti…
Basta riprendere, e poi connettere nel montaggio.
Non so se quanto ho visto io nel film era nelle intenzioni di Rosi, ma ve lo racconto lo stesso. Anzi, riduco anche io a zero la narrativa e vi faccio l’elenco degli elementi che si rispecchiano uno nell’altro, e mi lascio una ipotesi finale, che per un tratto mi ha afferrato alla fine del racconto. Chiarissima.
* * *
I rispecchiamenti. Le scene simmetriche.
1.
Samuele ed il padre in barca, che pescano calamari. Calamari adagiati sul fundo della lancia, che sputano l’inutile inchiostro, boccheggiando.
La macchina da presa (noi) che sta sul gommone accostato alla barca dei migranti. I militari (bianchi) trascinano sul fondo del gommone migranti moribondi, tremanti. I loro calamari.
2.
Samuele che fa lettura di inglese sul libro di scuola, pronunciando incomprensibili parole in quella lingua. Nessuno capisce la storia inventata nel libro, scritta solo per farlo esercitare con i termini.
Il gruppo di Nigeriani, nel centro di accoglienza, canta. Il solista, in un inglese comprensibilissimo, racconta il viaggio atroce ed i motivi che li hanno spinti a cercare la vita altrove. E lui è il suo racconto: lui è il suo canto. E’ la sua terribile storia, cui fa da eco il coro dei suoi fratelli. In una lingua incomprensibile, ma che è la lingua della loro tradizione, la lingua della loro gente nigeriana.
3.
I primissimi piani, i dettagli.
La nonna di Samuele che cucina i calamari appena pescati. La pelle del viso analizzata centimetro per centimetro. La smorfia del volto, quasi assente, quasi spento.
La donna nera. Piange, urla rabbiosamente. Ripensa a quanto ha vissuto, a quanto ha perso. E’ tormentata, e si versa una bottiglia di acqua in testa, quasi a volersi lavare via i ricordi. Un grumo nero di angoscia, maculato sulla pelle, un volto intenso, la disperazione.
* * *
Se due indizi non fanno una prova, tre ti danno la certezza. Ma è Rosi stesso, che ci racconta come ha seguito naturalmente Samuele — il filo rosso che guida la narrazione intuitiva — perché quanto gli accadeva era metafora di tutta la realtà.
Già, metafora. L’occhio pigro di Samuele che si rifiuta di vedere, come noi che ci rifiutiamo di affrontare il problema del Sud del mondo che bussa alle porte del Nord. Il suo mal di mare sulla barchetta del padre, indegno per un vero pescatore lampedusano, e i suoi sforzi per stare sul pontile mobile in maniera da “farsi lo stomaco” del pescatore. La sua caccia con la fionda agli uccellini, persino con gli occhiali correttivi che gli impediscono quasi di vedere, ma poi il ritrovamento notturno di un indifeso batuffolo cinguettante di piume, contro il quale ogni arma è pleonastica.
La pala del fico d’india riattaccata con un improbabile scotch, che chiude il buco ma non sana la ferita, e non riaggiusta niente.
Guai, acciacchi, micro-accadimenti di un “picciriddu”— che contengono l’emblema dei nostri tempi, lo “speculum aevi”.
* * *
E qui l’ipotesi finale. Quasi obbligatoria.
Samuele è la nostra infanzia. Quella di Rosi, ma anche la mia, quando andavo in pantaloncini corti a farmi le fionde con le camere d’aria bucate usate come elastici. A caccia di lucertole e uccellini, nei ricordi immobili di un’altra vita. La tua infanzia.
Che non ci ha preparati ai cataclismi epocali. Che non ci serve più per interpretare uno tsunami di corpi alla rinfusa, di vite gettate oltre il Canale di Sicilia, di uomini e donne alla ricerca del soffio vitale dall’altra parte del Mediterraneo.
La nostra storia non sa come affrontare il dramma, la tragedia. E l’unica risposta che riusciamo ad elaborare — e che sappiamo totalmente sbagliata e inane — è l’isolamento, l’isola.
Ma il cielo è plumbeo. Il sole è sparito, perfino dai ricordi.
Grazie Fabrizio per i convincenti spunti, provo di fantasia ad elaborarne uno…
Samuele gioca alla caccia per iniziarsi all’età adulta, che per l’isolano-piscature significherà “procacciarsi” di che vivere tra poche risorse. Anche se appare un safari, la caccia è una strategia indigena di adattamento (come poi “farsi lo stomaco”). Non è Samuele quanto il suo spettatore metropolitano a far esperienza, osservando lui, dell’oltre: è un caso che il brano biascicato in un inglese tanto sbrigativo quanto inutile per chi non uscirà mai dall’isola (come inutile è tutta l’educazione “inchiostrata” nei sussidiari di città), parlasse di Colombo? L’episodio, comico e tenero insieme, muove lo spettatore ad un gioco associativo: l’isola di fronte a Colombo (Anti-lia) fu l’imprevisto transito delle Afriche alla periferia dell’impero, l’Anti-lia di oggi, per ironia della storia, è il transito delle Afriche “cacciate” dagli abissi della fame e delle guerre. Verso dove? Il sole europeo, che nel 1517, quando i contadini aztechi videro “montagne in movimento” nei primi battelli spagnoli, non tramontava mai, finisce nella scena finale di Rosi, quando montagne di “carne africana” spiaggiano su isole ignare, eclissato. Arriverà anche in Europa la quinta catastrofe solare paventata nell’impero azteco di allora? Ora una nonna indigena prega in suffragio dei suoi cari…
Stefano, prevedi quindi che le isole Pelagie diventeranno zona di caccia per tanti piccoli Samuele auto-addestratisi a safari di “carne africana”, in omaggio ad una antica predizione Azteca, e coadiuvati da spettatori metropolitani dei film di Rosi — dopo aver gettato gli inutili sussidiari alle ortiche e aver mandato un saluto alla nonna inginocchiata in chiesa?
No, prevedo, al netto di giocose elucubrazioni di fantasia e sperando di sbagliare ancor più che con le associazioni di idee, che luoghi come Suruҫ, Idomeni, Lesbo, Lampedusa, insieme a inferociti corridoi libici o balcanici oltre il cimitero mediterraneo, diverranno sempre più affollati transiti delle disperazioni meridionali, a filmare le quali temo saranno i duri riscontri della nostra cronaca quotidiana, quella delle nostre città e non solo una lirica telecamera a giro in un’isola.
Credo che tu abbia ragione.
Vediamo ancora di lontano la marea montare, ma non abbiamo ancora capito cosa succederà. Quando le onde saranno molto vicine, sarà troppo tardi.
Purtroppo la nostra Europa è un inutile orpello, ostaggio di una burocrazia chiusa ad uovo su se stessa, che probabilmente fra poco non potremo più permetterci, e che fra un po’ di più ci si rivolterà decisamente contro — alzando muri contro tutto il sud, inclusa l’Italia.
L’Europa è una penisola, tra pena burocratica e sòle nazionalistiche: è però angoscioso provarsi anche solo a rappresentare, privi di “soluzioni” come siamo, i 12-20 milioni di esseri umani che potrebbero nei prossimi anni fuggire da luoghi patri oramai inabitabili. Da ciò certa mia apocalissi azteca.
denso e chiaro, come sempre.