“Ho tradito il popolo americano”. Con queste parole pronunciate al termine di una drammatica intervista della durata di ventotto ore, l’eccellente Frank Langella, nei panni di un cupo e contrito Nixon si arrende ai colpi sferrati da David Frost (interpretato dall’ottimo Michael Sheen) conduttore di talk show, dandy mondano prestato per l’occasione alla professione di giornalista con la “g” maiuscola. E’ il momento in cui si compie lo scioglimento del climax narrativo, il round finale dove le forze dell’ex presidente degli Stati Uniti d’America, il più discusso, il più controverso, l’uomo che incarnò il volto più oscuro del potere a stelle e strisce svaniscono nel disperato tentativo di difendere l’indifendibile: lo scandalo del Watergate nel 1974.

Ron Howard ci racconta un evento mediatico di dimensioni planetarie organizzando l’intreccio come fosse un thriller dal respiro vibrante e ci offre il profilo di due uomini che, in un periodo nodale della loro storia personale, cercano il riscatto in una sfida che ha le sembianze di un incontro di pugilato combattuto con le armi della psicologia. Da una parte lo “sfidante” Frost, che investe il proprio denaro nella dispendiosa operazione, fiutando le potenzialità di successo nell’incontro con l’uomo più importante del momento all’indomani della riabilitazione di Gerald Ford, il quale lo perdonerà per gli “errori” commessi, dall’altra il presidente scorbutico, riottoso, che ama il denaro, intento a riemergere nella vita politica nazionale. Il regista, attraverso un sapiente ed efficace uso del montaggio alternato, ci mostra la preparazione meticolosa dei due sfidanti: Frost si avvale di una equipe di giornalisti motivatissimi nella volontà di inchiodare il presidente alle sue gravi responsabilità politiche e morali. Lui, che viene dal talk show leggero e dalla satira (fece esperienza con i Monthy Python), non si sente all’altezza e forse non lo è. Proprio per questo Richard Nixon accetta (dietro lautissimo compenso) convinto della inconsistenza dell’avversario.

Il film di Ron Howard è esemplare nel mantenere in equilibrio i diversi motivi di un’opera densa ma dall’andamento asciutto, nel rispetto di ciò che possiamo indicare come prerogativa della migliore tradizione del cinema americano. Il regista si avvale di una sceneggiatura a orologeria, tratta da un testo teatrale di Peter Morgan, già sceneggiatore del notevole The Queen (2006) di Stephen Frears, ma supera a pieni voti la prova cinematografica nel trascendere la mera cronaca storico-politica, per spingerci verso una riflessione più che mai attuale sul rapporto tra media e potere mescolando, in una complessa stratificazione formale diversi linguaggi: documentario, finzione, satira, cementati da un’omogeneità visiva e narrativa rigorosa. Il ring dove combattono gli sfidanti è un set televisivo allestito per l’occasione, un luogo neutro che il regista scandaglia con continui passaggi di “sguardo”: dall’occhio televisivo “interno”, diegetico, a quello della sua macchina da presa, dunque del cinema, sottolineando la dialettica tra il ruolo che fu un tempo del giornalismo televisivo, quando alla politica chiedeva verità e onestà, a quello del cinema, che non può far altro che inglobare l’evento, manipolarlo e consegnarlo alle generazioni future. Emblematico il primo piano sul viso teso, sfinito di Nixon/Langella subito dopo l’amara confessione, e emblematica la testimonianza di uno dei giornalisti della squadra Frost: “Quel primo piano ha detto più cose su Nixon di tutte gli accusatori”.

Il film è in gara per cinque oscar: miglior film, miglior attore (Frank Langella), montaggio, sceneggiatura, regia. Auguri.

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