Nativi digitali (i figli, sempre connessi) e digitali annichiliti (i padri-gni, con solo gli occhi su libri oramai ingialliti); ipersessualizzati i primi e pornoinclini i secondi: così, nell’epoca della sempre più marcata recessione della parola e della sua capacità di scavo emotivo, appare appiattita la relazione intergenerazionale nel film di Ozon. Film che vorrebbe sondare l’evanescenza morale di un milieu borghese tecnicamente perfetto, ma che, succube figlio di un tempo senza slittamenti poetici e teso per lo più a solleticare le ambivalenze morbose nello sguardo dello spettatore, risulta la corriva rivista di un romanzo didascalico di presunta ascendenza naturalista.
Lo spessore psicologico dei personaggi è di caricaturale ovvietà, lo sviluppo narrativo e i dialoghi vengono scanditi da gesti bruschi, battute prevedibili e colpi di scena disarmanti, le inquadrature seguono patinate e asettiche i rivestiti couloirs percorsi da personaggi in cerca del loro vuoto: studentesse (del liceo dove insegnò il carismatico Alain alla Beauvoir) calate in tailleur da domatrice anoressica; maschi adolescenti usciti da un cartoon (o dalla magrittiana La reproduction interdite il simpatico fratellino in frizzante prepubertà) e incapaci di sentire la solitudine nei mancati godimenti della one night stand.
Quindi gli adulti, maschie pappagorge in finanziera e auto di lusso: «sei studentessa? … minorenne?…puttana una volta, puttana per sempre…». In “compenso” dei soldi è ostentata la simbolica inutilità. A seguire una madre che si recita senza nodi alla gola lo sgomento per la scoperta dell’altra figlia, ma subito attacca il rituale pronto soccorso borghese: dialogo progressista, buone maniere a tavola, fidanzatino riparatore (patetica la cartolina à la Moccia sul Pont aux Arts), corretto uso del preservativo e vizi quanto basta a supplire la solita assenza del padre. Infine lo psicologo, che accoglie madre e figlia appiccicato alla pelle della sua poltrona di design e dispensa perle di disciplina diffamanti tanti pur validi operatori: la sua tariffa è solo 70 euro e il borsellino sequestrato all’adolescente un utile convertendo. Del resto, come recita distrattamente il patrigno a riassumere la rassegnazione del racconto: «di che ti stupisci se ci si vuole comprare la bellezza di tua figlia?».
L’ultima copertina stile Vogue di questa pellicola che si sfoglia con annoiata insofferenza, la regala il cameo della Rampling: inizia anche lei recitando sé stessa, oscurata da occhialoni eccessivi. Quando se li toglie e nella sue rughe si accende finalmente la profondità drammatica di cui è priva ogni altra suppellettile del film, lo spirito di questo stende anche lei suggerendole la battuta suggello: «solo la timidezza mi avrebbe impedito di fare alla tua età quello che hai scelto di fare con il mio defunto marito».
Difficile che lo spettatore di questo film sia incontrato, alla fine, dalla domanda che forse varrebbe affrontare: come ci si sente dentro, oggigiorno, dinanzi all’industriale disponibilità di sketch di pornografia pret-a-porter, che sempre più giovani e vecchi su internet vivono come soverchiante istruzione per l’uso e per l’accesso ad ambienti virtuali di allucinante onnipotenza prestazionale (l’arancia meccanica del nostro tempo) e di intrinseca quanto desertificante incapacità emotiva? È possibile oggi un’educazione sentimentale degna di una oramai tramontante intimità?