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ALESSIA – Penso che il film sia partito da una condizione specifica, e molto politica, per parlarci, più in generale, della difficoltà di entrare in relazione con l’altro. Qui l’altro per me è quello che il pensiero razionale chiama il minorato, il malato mentale, il degente quando si parla il linguaggio “democratico” della medicalizzazione. In questo senso anche Camille, che è stata rifiutata dalla morale, dalla sessualità e dalla religione dominanti, non riesce a non rifiutare, a sua volta, e anche come altra sovrastruttura, ossia l’arte, i cosiddetti malati mentali. È il volto dell’altro, l’altro radicale come quello di chi non ha sovrastrutture e ideologie né, di più, una soggettività fondata sulla coscienza, che ci restituisce tutta l’impossibilità di comprenderlo secondo categorie e pre-giudizi. E poi anche il sacro come volto nudo che ci restituisce tutta la fragilità e l’interdizione alla violenza (come anche in Bergman e Bresson e Dreyer). Il martirio (ma non in parte consolatorio come in Dreyer) è l’ennesima sublimazione con cui rifiutare la differenza, ossia rifiutare l’irriducibilità tutta umana dell’altro che, diversamente, annullerebbe la nostra narcisistica aspirazione-difesa verso l'”assoluto” che non fa altro che riprodurre l’onnipotenza (impotenza) dell’unicita’.
Bergman parlava del volto come silenzio di Dio, cioè, forse, come accettazione umana, non soltanto razionale, dei limiti, del dolore, della vita che grida nonostante tutto è che ha necessità di una muta, di una moltitudine, che la possa ascoltare e aiutare a far divenire altro, di più, da sé, dal sé ferito, dal sé narcisistico, dal sé soloredazioneAmministratore del forumFABRIZIO – A me ha colpito rivedendola la scena in cui Camille/Juliette osserva recitare gli altro degenti del manicomio e le viene quella risata tra il sarcastico e lo sprezzante come nei confronti di qualcosa che inizialmente ci provoca rifiuto o non comprensione oppure,in atteggiamento più borghese, pietismo e senso del patetico…poi però Juliette esplode in un pianto disperato e senza fiato,e credo che questo dipenda dal contatto con quella autenticità e spontaneità a cui lei, “professionista”, non potrà mai accedere senza inibizioni o censure rispetto al senso del ridicolo e del grottesco. Fabr.
redazioneAmministratore del forumENZO sì la scena della rappresentazione del Don Giovanni, resa in quel modo grottesco, ma perfettamente vero, e la reazione di Camille di sarcasmo e divertimento, inizialmente, ma che la fa poi precipitare in una crisi di disperazione, sia forse la più bella di tutto il film e forse quella che ne fornisca una delle chiavi d’interpretazione. Interessante la notazione di Serena che attribuisce all’improvviso accorgersi da parte di Camille di non poter in alcun modo recitare una parte non autentica, nella consapevolezza di essere una vera artista, e con questo leggere manifestamente, senza appello, la sua condanna. Da qui la disperazione e il pianto.
redazioneAmministratore del forumCHIARA LENZI – nella scena del teatro è come se Camille si vedesse allo specchio guardando la ragazza sedotta da Don Giovanni… Don Giovanni come Rodin? Nelle scene prima sia il medico ricorda la fine di questo amore avvenuto 20 anni prima sia il fratello fa riferimento all’aborto? Infanticidio?
Anche lei sedotta dalle promesse dell’uomo seduttore… Sul viso era come rivivere una sua storia, una sua verità… e come poi prendere coscienza che anche lei è condannata come quella donna che sta sul palco, alla sofferenza, alla solitudine della malattia, alla clausura…
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