[** 1/2] – Dopo un’incursione nel mondo calcistico e il suo tributo a Diego Maradona, Marco Risi torna al cinema d’impegno, a cui ci aveva abituati fin da Il muro di gomma e Mery per sempre, tuffandosi questa volta nel mondo della camorra napoletana. Il regista racconta gli ultimi mesi di vita del giornalista Giancarlo Siani, napoletano “bene” del Vomero, venuto a “sporcarsi le mani” a Torre Annunziata, di cui, negli anni immediatamente successivi al terremoto del 1980, svelò e denunciò gli intrecci tra la politica locale e la camorra di Valentino Gionta negli appalti per la ricostruzione. Per questo motivo, con la sola colpa di fare il giornalista-giornalista, anziché il giornalista-impiegato, per citare una battuta del film, Giancarlo Siani fu ucciso il 23 settembre 1985 a pochi metri da casa sua. Precario, desideroso di entrare stabilmente nel prestigioso quotidiano napoletano de Il Mattino, fece quello che a lui sembrava la cosa più normale e ovvia per un giornalista: indagare, scrivere, informare. Ma in terra di camorra anche svolgere il proprio lavoro può “costringerti”, tuo malgrado, a diventare un eroe.
Grande merito dunque a Marco Risi per aver portato alla ribalta nazionale questa vicenda, e soprattutto per aver raccontato, accanto al giornalista, l’uomo, poco più che ragazzo, carico di giovialità e slanci di vita. Il volto di Libero De Rienzo (David di Donatello come miglior attore esordiente nel 2002 per Santa Maradona) che guarda ai suoi assassini un istante prima di essere ucciso è di una potenza grandiosa, un misto di consapevolezza e rabbia, di rassegnazione e di voglia di gridare al mondo quanto ingiusto sia quel momento. E quell’assassinio. L’interpretazione dell’attore napoletano è davvero toccante, capace di esprimere forza e tenacia, ironia e ardore.
Ma nel suo complesso l’operazione del film, che guarda più ai Cento Passi che a Gomorra, appare non priva di limiti, sia di contesto che nella costruzione dei personaggi. La Fortapasc, traduzione alla napoletana di Fort Apache, è rappresentata da Torre Annunziata. Il regista crea uno stacco netto tra il mondo civilizzato, il Vomero napoletano, fatto di bei palazzi, bar alla moda, concerti di musica classica, e la cittadina torrese, descritta in termini di brutalità quasi animalesca. E sia chiaro che questo non vuole essere un tentativo di difesa della città di Torre Annunziata, tanto più che come Roberto Saviano ci ha magistralmente dimostrato, il sistema della camorra ha confini transnazionali. Ma se si racconta un luogo, un personaggio, una storia, il contesto non può mai risultare appena abbozzato o posticcio. Ed è invece proprio questa la sensazione che il film dà. Di questa cittadina sul mare a Risi non interessano che vicoli e figurine umane quasi animali e non riesce, per questo, a ricostruirne atmosfere e contorni reali. Ben più interessanti sono le dinamiche e le vicende legate al mondo camorristico, i cui protagonisti, pur se raccontati secondo stilemi cinematografici, appaiono credibili e compiuti. Di grande interesse sono, ad esempio, certi squarci sulla quotidianità malavitosa o la tragica scena della strage al bar. Semmai convincono meno certi personaggi, quelli dell’“altra parte”, come il capo di Siani (Ernesto Mahieux) e i suoi sermoni dal sapore qualunquista, o il giudice (il sempre convincente Gianfelice Imparato), il cui essere totalmente imbelle simboleggerà pure l’assenza dello Stato, ma con modalità ai limiti della macchietta. E lo stesso personaggio di Siani lascia qualche perplessità. Da cosa è mosso? Il regista sembra rimanere sempre al di qua di uno scandaglio profondo delle motivazioni, dei principi da cui il giornalista è spinto nella sua ricerca della verità. Ci descrive la sua tenacia e la sua volontà di raccontare, ma talvolta dà l’impressione di rifiutare di analizzarla. E se in più punti il protagonista ci ricorda il Peppino Impastato dei Cento passi, il film non riesce a ricostruirne la stessa “magia”; e così la compattezza stilistica e drammaturgica del film di Marco Tullio Giordana si frantuma in “momenti” cinematografici isolati non tutti dello stesso livello. Non tutta la pellicola ha per esempio la forza mirabile della scena in cui si svolge la seduta del consiglio comunale, (omaggio al capolavoro Le mani sulla città di Francesco Rosi) – dove non si decide nulla – costruita in un frenetico montaggio alternato con la “seduta”, ben più determinante, dei capi camorristi.
Insomma tirando le somme, Fortapasc risulta un film dalle molte promesse, ma non tutte mantenute davvero, apprezzabile a tratti e non nel suo complesso.