Tutti i festival hanno una loro cifra, una volta si sarebbe detto una propria, e inevitabile, diplomazia. E in questo senso, e paradossalmente, quella del Florence Queer Festival sembrerebbe essere, allora, il non farsi prendere, il non arrestarsi ad amministrare, con incedere compassato, quanto costruito, la sfida essendo piuttosto quella di reinventare e cambiare, abbracciando il futuro sia nella libertà di pensare che di filmare. Pensare a spazi che siano i più inclusivi e (in)attuali possibili e insieme dar voce a modi di filmare originali sia nei temi che nei formati e nella messa in scena. Ecco allora, nella fertile proposta, l’abitare i mille piani dell’autodeterminazione e del desiderio che prendono i corpi e le vite di persone non binarie e transgender; la topologia a più strati e l’avventura del costituirsi dentro relazioni non eterodirette di famiglie in-divenire; l’attivismo raccontato attraverso storie di resistenza che sono anche atti di creazione, come sempre accade quando si inventano delle pratiche nuove e nuove parole per dirlo –accade ogni volta anche con la poesia. Istituire vite, desideri, luoghi in quanto siamo costituit* per fare questo (la soggettività o è politica o non è), destituendo fantasmi vecchi e nuovi del patriarcato che, e con recrudescenza, vorrebbero escludere dalla vita attiva tante soggettività in quanto considerate vite che valgono meno di altre, vite di scarto. Ma lo strano, invece, stranezza d’amore e scarto felice, è che l’attivismo queer non ci pensa proprio a restare nella tristezza che si riserva alle vittime, respingendo al mittente codici e dettami della cultura dominante per il tramite di ricodificazioni o fughe in avanti, forme insieme politiche e proliferanti, non rinunciando a misurarsi anche con il canone, come quando si utilizza la parodia per mettere in evidenza gli aspetti tragicomici di vite cosiddette centrate.
Ben tre le sezioni di concorso: Lungometraggi, Cortometraggi e Premio Pride, oltre a eventi speciali (i primi due episodi della prima miniserie di Xavier Dolan, The night logan woke up; Brotherhood, film danese del 2009 che decostruisce l’ordine del discorso dell’odio), matinée per le scuole e la sezione Queer Extra, dove ha spiccato per vivacità e libertà nel delineare un dialogo insieme a partire da gusti e letture critiche diverse, quando non opposte, il panel “La vita di Adele: 10 anni dopo, il blu è ancora un colore caldo?”, condotto, con verve, dalla giornalista Chiara Zanini.
Inoltre, al Florence Queer Festival c’è stata la seconda edizione di Queer Animation, dedicata al cortometraggio animato queer: “differenti approcci artistici e modalità a raccontare le identità queer attraverso il medium dell’animazione. Un viaggio tra punti di vista e scorci sulle identità LGBTIQIA+ attraverso una prospettiva multiculturale e intersezionale con focus specifico su politica, storie personali, micro-labels e identità marginalizzate”.
E se è vero che i festival sono definiti da chi li abita, ricordiamo allora anche Barbara Caponi e Giacomo Brotto, alla direzione del festival, l’associazione di volontariato LGBTQIA+ IREOS, che da più di 25 anni opera nel territorio toscano, il team di attivist* che con rigore ed entusiasmo ha traghettato la manifestazione verso nuove concatenazioni e nuovi sguardi.
Di seguito una piccola panoramica di alcune cose viste allo splendido cinema La compagnia (www.cinemalacompagnia.it), che ha ospitato il festival: senza alcuna intenzione classificatoria o tassativa, piuttosto tela cucita con mille tessuti diversi.
Monsieur Le Butch di Jude Dry (USA, 2022, 12’)
La verità è stata un’altra e sempre lo sarà, sembra volerci dire Jude Dry, il pregiudizio come vizio (e anche vezzo) culturale irrinunciabile a falsare e negare ogni possibilità di incontro reale. Ma poi, con scarto eccedente, a questa impossibilità, tramite una riuscita messa in scena marcatamente parodica e meta, Dry affianca l’incontro tra le due soggettività, madre e figli*, che si ritrovano a inscenare un piccolo dramma tragicomico, un teatrino fatto di cose tanto minime quanto potenti su un piano simbolico e riconfigurativo (o comunque efficaci nel rompere l’immagine omogenea e universale che si fa della società), durante il lockdown. E forse è anche questa simultaneità tra realtà e finzione che, suggerendo lo spazio aumentato del reale, rompe il clima di isolamento associato alla vita durante la pandemia.
Che buffa, la zia Valeria di Marta Specolizzi (Italia, 2023, 5’)
In un formato breve e tramite immagini d’archivio e voice over in prima persona, la regista riesce a restituirci, e con grande ispirazione, la durata di una vita diversa, che è poi quella della zia. Il paese salentino dove Valeria ha abitato e dove ha amato altre donne si fa allora luogo della memoria e insieme dell’immaginario, della scelta libera in condizioni di semi-impossibilità e del desiderio che unisce senza soluzione di continuità Valeria a Marta.
A love story di Alexis Michalik (Francia, 2022, 88’)
Una storia d’amore tra due donne mostrata attraverso le tappe (e soprattutto gli ostacoli) di una qualunque altra storia d’amore stendhaliana -nel senso forte del termine. Paura, passione, tradimento, malattia e morte: non ci viene risparmiato nulla del Grande Amore -salvifico o fulminante a seconda. Eppure il film del regista francese lascia un segno. E lo lascia non tanto nella portata negativa dei temi o nella marcata psicologia delle protagoniste –tutti costrutti che getterebbero il film nelle pastoie di una vischiosa verticalità-, quanto piuttosto nel comunicarci quell’irriducibile bisogno di energia, desiderio, apertura ed elettricità che serve per vedere (oltre lo schermo, oltre il sé, oltre il dominio che vorrebbe costruire e scavare, fino all’osso, come i cani alla catena, i rapporti).
Bellezza, addio di Carmen Gardina e Massimiliano Palmese (Italia, 2023, 80’)
Documentario che riscostruisce la vita e le opere del poeta Dario Bellezza, che negli anni ’70 Pasolini definì “il miglior poeta della sua generazione”, e i suoi amici il “Rimbaud di Monteverde”, e che lo fa a partire da una situazione di intensità: una immagine d’archivio privata (ma non riferibile direttamente a Bellezza) su una distesa marina, suggerendo che la visione sarà una immersione nel mondo della sua poesia. E in parte questo accade, con una mappatura storica e affettiva della Roma di quegli anni, dei rapporti che aveva con Pasolini (che idolatrava), con Moravia, Morante e Rosselli (con cui ha condiviso case piccole e litigi colossali), Ortese (suo il generoso merito di averla riportata fuori da un incredibile oblio). Una scena culturale che Bellezza, sembrano dirci Giardina e Palmese, vive tra picchi di assolutezza e storie minime -fatte anche molto di pettegolezzi-, tra grandeur e indigenza, divorato dall’amore non ricambiato per ragazzi più giovani e dalla poesia (poesia maledetta, non c’è bisogno di dirlo; intrisa di trasgressione e peccato, di colpa e angoscia). La parte finale del documentario si sofferma, con perizia e vicinanza, su una vicenda deplorevole ed enormemente triste accaduta a Dario Bellezza. Negli ultimi anni della sua vita Bellezza, omosessuale dichiarato, si sottopose a metodi di cura alternativi, sicuramente discutibili ma non è questo il punto, per curare l’infezione da HIV che aveva contratto, e in una inchiesta d’assalto, tesa ad animare le peggiori prurigini, fu vittima di una mostruosa discriminazione giornalistica e mediatica (oggi sarebbe un reato), vale a dire la rivelazione dei suoi dati sensibili –si vide sbattere la sua faccia in prima pagina con accanto il carattere della sua malattia, stigma degli anni ’80 e ’90. Venne trattato come una specie di “pazzo demente”, una persona “incapace di intendere e di volere”. Offeso in ciò che di più intimo e vincolante una persona tenta di custodire, con fatica, in una vita. E questa ferita cattiva e violenta, questa riduzione a paria, lo gettarono in uno stato di sofferenza da cui non riuscì più a riemergere. E merito rinnovato ha allora la sequenza finale, spazio e altrove dove torna ad agitarsi il mare, forma primaria e sfuggente con cui ripensare, e ancora, alla “mia vita tempesta”.
Luki di Marta Bencich (Italia, 2022, 11’)
Poetico e mobile cortometraggio che racconta la storia di Luki Massa (1962-2016), una delle prime attiviste lesbiche in Italia negli anni ’80, che “insieme a poche altre pioniere ha inventato un mondo che fino ad allora non era stato immaginato”. Il corto si apre con un ricordo di una delle tante compagne che ha conosciuto Luki, “una vita in cui tra il quotidiano e lo straordinario non è mai esistito un vero confine”. E scorribanda riuscita tra generi e formati il corto lo è di certo: biografia, romanzo di formazione, film di animazione, footage film. Ed è forse proprio questo uso delle immagini d’archivio a farsi memoria viva e materia contagiosa delle idee e del corpo di Luki Massa; oltre a una sequenza rivelatoria e struggente, in cui la bambina Lucia, il suo avatar animato, dopo essere stata medicata dalla madre, contadina con cui la bambina vive in una piccola casa in Campania davanti al mare e che morirà di lì a poco, guarda nello specchio la donna che fino ad allora si è presa cura di lei, scrutandola con fiducia e speranza, immaginando una possibile genealogia. “Unite si vince. Quando insieme si occupano gli spazi, quando insieme si crea una energia positiva, e soprattutto di lotta”. Ricordando Luki, ogni Luki.