di Armando Andria/ Uno dei tre titoli italiani selezionati nella Quinzaine des réalisateurs dell’ultimo Festival di Cannes, insieme ai film di Bellocchio e Virzì, Fiore è il diario accorato di una manciata di mesi nella vita di Daphne, adolescente sbandata della periferia romana. Dopo una serie di piccoli furti, la ragazza finisce in un carcere minorile, contro la cui durezza subito e violentemente si scontra il suo carattere ribelle e refrattario alle regole. Ma nel riformatorio, una struttura che ospita sia maschi che femmine seppure in due palazzine separate, Daphne è destinata anche a scoprire sentimenti che le erano sconosciuti.
Senza girarci intorno, quel che distingue Fiore da analoghi racconti di ambientazione carceraria e devianza adolescenziale, e lo rende speciale, è l’affetto e la cura che Claudio Giovannesi nutre per la sua storia e i suoi protagonisti. Un affetto che sta prima del film, prima del ciak, nella pratica di un cinema di relazione che prima ha portato il regista e i suoi cosceneggiatori, Filippo Gravino e Antonella Lattanzi, a visitare quotidianamente per sei mesi l’Istituto penale di Casal del Marmo (Roma), per essere in grado di concepire un film il più possibile “vero” da ambientare in un luogo evidentemente fortemente connotato a livello finzionale. E che ha poi condotto davanti alla macchina da presa molti non professionisti, in linea con la medesima idea di ricerca della verità attraverso il cinema, per la quale l’attore non è solo tramite tra il progetto autoriale e lo spettatore, ma è co-autore del suo personaggio, riversandovi il suo vissuto peculiare, unico.
Dunque, sullo schermo, molti ragazzi presi dalla strada, come si diceva una volta, a cominciare dai due ruoli principali: Daphne Scoccia – sbalorditiva – ha alle spalle esperienze vicine a quelle del suo personaggio e fino a qualche mese fa serviva ai tavoli di un’osteria, dove è stata scoperta dal regista e convinta a fare un provino; Josciua Algeri, che interpreta il detenuto di cui Daphne si innamora, è un rapper ed ex-detenuto che ha imparato in carcere a recitare. C’è poi il cameo di Aniello Arena, il protagonista di Reality, la cui biografia ovviamente parla da sé, rendendolo qui quasi un nume tutelare dei due ragazzi.
Tutto questo “pre”, beninteso, Giovannesi – classe ’78, diversi documentari alle spalle, poi autore dei debitamente segnalati Wolf e Alì ha gli occhi azzurri e ora anche tra i registi della seconda stagione della serie Gomorra – ha grande cura di trasformarlo in cinema. E allora, tanto per cominciare, grande consapevolezza nell’uso della macchina da presa, anche grazie alla collaborazione di Daniele Ciprì alla fotografia, con netta predilezione per il pianosequenza. Per quasi tutto il film la camera rimane attaccata al volto di Daphne e degli altri, a distanza ravvicinatissima, a dimostrare il fiato addosso di un destino che sembra non lasciare scampo a questi ragazzi perennemente votati alla fuga.
La linea autoriale è quella di un realismo energico ma rigoroso e pudico, concepito affinché una materia ad alto rischio emotivo non strabordi. Si fa strada però, poco a poco, un’anima romantica, che il film sottolinea con momenti di apertura coraggiosi (la sequenza del sogno), a volte spericolati (quella delle bolle di sapone), spesso legati ad accensioni musicali (l’uso di Maledetta primavera e Sally), che il montaggio – curato dallo stesso Giovannesi insieme a uno dei due scrittori, Gravino – sa ben gestire. Che il film si guadagni faticosamente una libertà emotiva lo si può apprezzare appieno in ogni caso dall’evoluzione del personaggio del padre di Daphne, Ascanio (un Valerio Mastandrea di mirabile misura): un uomo dal passato tormentato (lui dal carcere è appena uscito), che parte dal rifiuto del ruolo paterno per muoversi, con l’aiuto della figlia, verso una problematica accettazione.
Nel finale si allargherà finalmente il campo, la camera concederà a Daphne respiro, perfino l’agio di una truffautiana corsa sul bagnasciuga, senza però illuderci su quello che sarà di un destino che rimane tutto da rovesciare.