Non ha mai dato troppa importanza alla verosimiglianza delle sue storie, Almodovar, e questo va detto subito. Ha sempre prediletto intrecci complicatissimi – lasciando a tratti lo spettatore rassegnato a non raccapezzarsi, ma comunque rapito e affascinato dalle immagini – salvo poi, verso la fine, riannodare tutti i fili e ricomporre magicamente il puzzle. Merito soprattutto delle sue sceneggiature perfette, dei veri e propri orologi in cui ogni singolo ingranaggio svolge una funzione fondamentale.

In La pelle che abito l’azzardo non paga, e l’impressione è che al congegno manchino uno o due pezzi. O meglio, cambiando metafora e trasformando l’orologiaio-Pedro in un atleta, sembra che abbia alzato un po’ troppo l’asticella, per tentare un record che le sue gambe non gli consentono di raggiungere. Gli va riconosciuto il coraggio del tentativo, si può ammirare l’eleganza della rincorsa (e portare sempre nel cuore il ricordo dei salti precedenti), ma in questo caso non si va a medaglie.

La pelle che abito – film presentato a maggio a Cannes e nelle sale italiane da venerdì scorso – è la storia di un’ossessione. Il protagonista (riducendo all’osso la trama, per tacere gli innumerevoli colpi di scena) è un chirurgo estetico di successo, Robert Ledgard (Antonio Banderas, che torna a lavorare col regista manchego a vent’anni da Légami!). Apparentemente, vive con una donna che tiene segregata in una stanza, e che usa come cavia per i suoi esperimenti, trasfomandola – un intervento dopo l’altro – a immagine e somiglianza della sua defunta moglie. Ledgard è reso folle dalla sete di vendetta nei confronti di due persone: il responsabile, appunto, della morte di sua moglie (carbonizzata in un incidente d’auto), e il ragazzo che tentò di violentare sua figlia, mentalmente instabile, spingendola poi al suicidio. Il primo sarà liquidato piuttosto facilmente, mentre alla seconda vendetta il chirurgo dedicherà anni della sua vita.

L’atmosfera del film è quella di un horror (psicologico per meglio dire: non c’è nulla di soprannaturale, e le sequenze splatter sono pochissime), e si capisce presto come non sia esattamente l’habitat naturale di Almodovar. I dialoghi, come da marchio di fabbrica sempre sopra le righe e grotteschi, spesso spezzano (o addirittura abbattono) la tensione, precipitando a volte nella comicità involontaria. Alcune sequenze appaiono spesso di un kitsch del tutto gratuito, e lo stridore con l’algida atmosfera del film è fastidiosamente vistoso.

Il vero problema, però, è forse un altro: dopo aver raccontato storie meravigliosamente corali, Almodovar mette in scena un film che ruota intorno a un solo personaggio. E dopo aver spinto lo spettatore all’empatia verso i personaggi più negativi (basti pensare a Javier Camara che viola una donna in coma in Parla con lei, o all’incendio e all’omicidio con occultamento di cadavere in Volver), analizza e tratta Ledgard-Banderas con la freddezza di un entomologo.

Così facendo, tante sotto-trame potenzialmente “almodovariane” vengono lasciate sullo sfondo. Almeno il personaggio dell’assistente (madre? o matrigna?) del dottore, interpretato da Marisa Paredes, avrebbe meritato un maggiore approfondimento. In questo senso anche il segreto che la donna rivela a metà del film scivola via senza aggiungere nulla alla narrazione, come un’occasione persa. E molti aspetti della relazione tra Banderas e la sua donna (Elena Anaya, praticamente perfetta), soprattutto alla luce del finale restano oscuri.

Così facendo, resta una sorta di dottor Frankenstein, un chirurgo che gioca a fare Dio, un Dio furioso e vendicativo, di cui non si intravede quell’umanità che Almodovar non aveva mai negato a nessuno, per quanto vile, violento, fuorilegge o “contro-natura” fosse.

Resta una storia che probabilmente sarebbe più nelle corde di un Cronenberg o di un Lynch, ma che il regista spagnolo cerca di modellare dandole il suo inimitabile tocco, ma senza riuscirci del tutto. Resta in ogni caso almeno qualche sequenza di cinema da manuale. Ma resta, forse, soprattutto una bellezza di plastica.

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