Voyez comme ils dansent si apre negli spazi angusti del camerino di un teatro e termina quasi emblematicamente nelle distese aperte più immense ed oceaniche del Canada dove l’irruente e tormentato talento di Vic Clèment (uno strabordante James Thièrrèe) sembra finalmente trovare qualcosa di molto simile alla pace.
Come se l’estro e gli affanni del protagonista fossero troppi perchè potesse condivederli tutti con una sola compagna, Claude Miller filma il tipico processo di lacerazione sentimentale di un uomo di successo che lascia la moglie per un’altra, che è parte di un mondo a lui del tutto estraneo e incongruente.
Per far questo, l’ex collaboratore di Jean-Luc Godard divide quasi maniacalmente il film in due parti incredibilmente diverse l’una rispetto all’altra; ed è come se dedicasse la prima a Lise, la partner abbandonata interpretata da Marina Hands, e la seconda ad Alex, l’amante cui presta il volto la nostra Maya Sansa. Miller ha indiscutibilmente un ottimo stile nel contrapporre la dipendenza e l’ammirazione quasi da fan di Lisa per suo marito, al pragmatismo di Alex, che invece ama Vic nella sua dimensione fuggiasca, irrisolta e arrendevole alla forza della natura sovrastante di Alberta. Il regista rafforza sicuramente questa soluzione partendo con un respiro decisamente europeo, pregno di citazioni alla stessa Nouvelle Vague per poi assestarsi verso la fine su un passo più hollywoodiano, stracolmo di estenuanti riprese dall’alto.
A nostro modo di vedere però, il problema principale di Voyez comme ils dansent non è nel cambio di registro o nell’inevitabile contrapposizione di flashback. Temiamo che Miller, nel complesso, abbia voluto mantenere un tono troppo solenne e quasi epico per documentare una storia d’amore che così rischia di confondersi quasi con un film impegnato, o una specie di caccia al tesoro irrisolta, snaturandolo e gonfiandolo di significati che forse non ha. Soprassedendo sulla questione e la contestualizzazione della riserva dei nativi americani nello sviluppo del soggetto, dobbiamo convenire che il regista è stato troppo pedante nel voler approfondire lo spessore di quasi ogni personaggio incontrato nel film e se nel caso del controllore del treno o il marito infedele dalla cravatta verde la cosa può risultare divertente, soffermandosi sul profilo del padre di Vic, l’amico indiano di Alex e almeno un’altra mezza dozzina, Miller ha indiscutibilmente aperto troppe strade lasciando così allo spettatore solo la possibiità di aggrapparsi alla preoccupazione centrale di capire quale possa essere stata la sorte finale del protagonista.
In tutto questo, va detto che anche l’interpretazione di Maya Sansa, una delle attrici italiane che amiamo di più in assoluto, risente del senso di solennità immanente della pellicola, quasi come fosse spinta a voler proporre la sua miglior prova di sempre. Soprassiedendo sulla scena del funerale nella riserva indiana, se mai volessimo vestire i panni del critico medio del Festival di Roma e affrontare il problema del dualismo tra le more e le bionde, forse ha vinto Marina Hands che con la sua aria stordita, ma determanata ha avuto un passo in più, così come le riprese bellissime sulle foreste del Canada. Siamo sicuri che dopo la visione del film mezza sala, alla prossima cena, dirà che vuole andare in vacanza in Ontario.