Purtroppo inauguro il mio personalissimo debutto al Festival di Roma solo lunedì, quinto giorno di proiezioni. E’ Halloween, già in metro si respira una certa predisposizione a festeggiamenti pagani, ma ammetto di aver impostato tutto il mio umore al rigore più assoluto per prepararmi al meglio e con una certa devozione alla visione di Undici metri, il documentario su Agostino Di Bartolomei.

La folla gigantesca in coda davanti alla Sala Petrassi però mi farà presto rivedere i piani, ma anche sperare che tutta questa attenzione alla memoria del capitano già omaggiato da Sorrentino ne L’uomo in più, possa dare al film di Del Grosso un respiro più lungo nelle programmazioni dei prossimi mesi, almeno nei cinema romani. In zona Auditorium a quel punto ci si poteva dirigere solo verso Magic Valley, il primo film di Jaffe Zinn e l’unico a non avere una cartella stampa di presentazione nella sala giornalisti, direi una coincidenza davvero stimolante.

Tanto più erano poche le notizie che avevamo su questa produzione, tanto più il regista dell’Idaho ha sovraccaricato, sin dall’inizio, tutta la sua storia di microcellule narrative, personaggi e livelli di scrittura intricati e contrapposti. Gli stimoli e la sintesi organica di Magic Valley in questo senso parlano un linguaggio davvero prossimo al Gus Van Sant di Elephant e Paranoid Park o al The Burning Plain di Guillermo Arriaga. La splendida fotografia di Sean Kirby e alcune soluzioni di regia che sembrano materializzare nelle inquadrature un certo senso di pudore nel filmare l’inderogabile estinguersi della linfa vitale della cominità di Buhl (che è anche la città natale di Zinn) conferiscono comunque alla storia un taglio confidenziale e personale che la mette al riparo da imitazioni calligrafiche o sconfinamenti nel determinismo concatenante di un Inarritu. Non vorremmo straparlare travolti dai tempi del festival, ma la desolazione e l’impoverimento esistenziale post crisi subprime filmato da Zinn lascia evocare ai prati spelacchiati e gonfi di carcasse dell’Idaho le stimmate di quel tipo di povertà e quegli stracci sporchi già raccontati da Steinbeck nella depressione di Grapes of Wrath, ma con in più cento anni di ossa ancora più rotte da capitalismo e svuotamento culturale da sit-com.

Il paragone tra la moria di pesci nel laghetto striminzito e senza ossigeno del padre di Susan e le pratiche di autosoffocamento di tutti gli amici di Tj è disarmante. Come i pochi salmoni rimasti in vita e prossimi alla morte nel piccolo pozzo d’acqua nera, gli abitanti di Buhl sembrano dedicare i loro ultimi giorni alle pratiche più futili, come portare il Lama (?) dal veterinario per la pulizia dei denti, la caccia o le ricerche a scrocco di balle di fieno. In tutto questo poi i bambini non sembrano certo rappresentare l’innocenza salvifica della comunità, anzi la degradazione più cinica e incontrollabile.

Il fatto che Zinn mantenga in continua crescita il senso del dramma per poi deviarlo frettolosamente negli attimi più risolutivi accresce ancora di più la consapevolezza di trovarci di fronte ad una grande opera prima, tanto più in concorso. Ah, non diciamo questo perchè la folla in fila ci ha tolto tutta l’aria, possibile. Complimenti.

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