– Mi vuoi sposare? Aspetta di conoscere la mia famiglia! – Aspetta tu di conoscere la mia…!
La commedia di Elliott focalizza alcuni interrogativi: cosa accadrebbe se la giovane figlia di un ricco senatore australiano e uno spiantato orfano inglese circondato da amici casinisti, si innamorassero pur non sapendo ancora quasi nulla l’una dell’altro? Come sarebbe accolta la notizia della loro intenzione di sposarsi nei due mondi? Come andrebbe a finire quando questi due mondi inevitabilmente dovessero collidere?
Protagonisti comici assoluti del film sono i Best men del titolo, i tre amici fraterni e testimoni dello sposo David (Xavier Samuel). Accompagnandolo in Australia per il matrimonio, scateneranno più o meno involontariamente una ridda d’incidenti a catena che metterà a dura prova il buon umore di parenti e invitati e l’esito delle nozze. Con la meticolosità di un servizio catering di disastri, ripagheranno l’accoglienza un po’ sprezzante della famiglia della ragazza, con un tributo di scompiglio destabilizzante. A farne le spese soprattutto il padre senatore, troppo attento alla carriera e a fare sfoggio di sé con i colleghi di partito bigotti, per condividere semplicemente la felicità della figlia Mia (Laura Brent) e accettare le sue scelte esistenziali.
Di estrazione proletaria, ma pur sempre londinesi e a loro modo posh, gli amici di David non sono agenti provocatori così inconsapevoli come vorrebbero farsi passare. La paura di perdere per sempre l’amico fraterno, mista a una certa invidia per la sua buona sorte, fanno il paio con una malcelata insofferenza british per quei “cugini” arricchiti, rimasti sotto sotto irrimediabilmente dei cafoni.
Commedie di ottimo livello come East is East e Jalla Jalla, o il più modesto My Big Fat Greek Wedding, avevano già tematizzato il clash culturale prodotto dalla scelta inamovibile di una giovane coppia, determinata a unirsi in matrimonio a dispetto delle differenze sociali e delle perplessità dei rispettivi gruppi famigliari e amicali. Corto circuito tra opposti: relativismo occidentale secolarizzato da una parte, in cui il razzismo è spesso celato sotto le maglie di un ethos progressista, e coaguli di oscurantismo patriarcale-religioso dall’altra, radicato in comunità immigrate in crisi d’identità.
Sotto tiro lì era il “politically correct”, melma indistinta di equilibrismo e studiata xenofilia che annacqua il conflitto nel “non detto”, e così facendo di solito lo aggrava. Diversamente, in A Few Best Men il match è quasi un derby, tutto giocato tra sudditi ed ex-sudditi di Sua Maestà in un universo più affine di valori. All’asprezza dell’urto etnico religioso si sostituisce l’impatto morbido rappresentato da un complesso più sfumato di disuguaglianza sociale, estrazione culturale e stili di vita, come pure l’eterno rapporto di odio-amore tra cittadini dell’ex-Impero britannico e i cugini dell’ex-colonia (penale) in mezzo al Pacifico.Nutrivo qualche fondata speranza di divertirmi con una commedia irriverente. Le condizioni propizie offerte da un dispositivo comico ben consolidato, un matrimonio come campo di collisione di civiltà, e più di tutto la firma alla regia dell’australiano Stephan Elliott, già maestro di cerimonia delle drag queen in The Adventures of Priscilla, Queen of the Desert, promettevano bene.
Nonostante le ottime intenzioni, un cast di livello (che segna il ritorno di Olivia Newton-John) e la migliore predisposizione facciale alla risata, il risultato è ahimè insipido. Il film sembra soffrire della smania di conquistare il pubblico a ogni costo, di tenerlo costantemente su di giri. E l’ossessione per il ritmo, se non alimentata da una scrittura all’altezza e da una regia cronometrica, può giocare brutti scherzi, provocando sperpero di espedienti narrativi, in un sovraccarico che nuoce alla freschezza dell’insieme. A Few Best Men non ci convince né come puro congegno comico, né per auspicate virtù di satira sociale. Il perbenismo ipocrita incarnato dalla famiglia di Mia è oggetto al più di benevola ironia, nessuna vera ferocia dissacratoria (si pensi alla ben altra carica liberatoria di The Boat that Rocked) a scompigliare l’assetto dei falsi valori borghesi.