Che botta questo film! Che bella scossa quando il cinema italiano sa parlare un linguaggio internazionale quanto più parta dalle sue radici più profonde, così come accade con Il passato è una terra straniera di Daniele Vicari. In questo caso, le radici sono prima di tutto geografiche: quella Bari, quella Puglia così diversa dall’immaginario cinematografico a cui eravamo abituati negli ultimi tempi, popolare e rurale, e che invece scopriamo in una veste inedita, metropolitana e borghese, notturna e ambigua.
In questo mondo liquido, dove, specialmente nel meridione, borghesi e popolo maggiormente si mescolano, tra ville sontuose e bettole al porto, dove più labili sono i confini tra ciò che è legale e ciò che non lo è, troviamo Giorgio (Elio Germano), studente modello e di buona famiglia, la cui vita scorre tra libri e virginale fidanzata, privo di carisma e a tratti insignificante. Una sera l’incontro con Francesco (Michele Riondino), un ragazzo “del popolo”, affascinante, ambiguo, carismatico: un incontro fulminante, da cui scaturirà un legame quasi morboso, complice, irrinunciabile per entrambi, che li porterà a vivere esperienze estreme, fatte di truffe ai tavoli da poker, droga e sesso con donne ricche e annoiate, in una deriva dalle conseguenze imprevedibili. Giorgio si lascia avvolgere completamente da Francesco, dal suo mondo, dalla sua bravura di baro, dal suo fascino, arrivando fin quasi a superarlo, ad avere più fortuna, astuzia e successo del compagno, fino all’epilogo tragico che ristabilirà in un sol colpo gerarchie e differenze, sociali, ma soprattutto morali.
Ma nonostante il riscatto di Giorgio nel finale, ciò che è accaduto rimarrà indelebile nel tempo, e non basterà buttarsi il passato alle spalle e considerarlo “una terra straniera”. E ciò per la semplice ragione che quel passato non è passato, e quella terra non è una terra straniera, ma è una terra madre. Una terra che, seppur confinata nell’abisso segreto del proprio io, è parte del DNA di Giorgio, rappresenta il suo lato oscuro, che Francesco non farà altro che far venire fuori, in modo socraticamente maieutico. Ed è proprio questa la forza sconvolgente del film di Vicari: Giorgio non è un bravo ragazzo che si lascia trascinare dalle cattive compagnie, non è Pinocchio ingannato dal Gatto e la Volpe, Giorgio è Pinocchio e Volpe insieme, e l’incontro con Francesco non rappresenta altro che la presa di coscienza che quel male, incarnato da Francesco, è già dentro di lui. Nel tradurre in film l’opera letteraria di Gianrico Carofiglio, magistrato barese che conosce bene quel mondo che descrive (e il cui libro ha avuto uno straordinario successo internazionale), Vicari non arretra di fronte alla perversione, al vizio, al male oscuro che trasforma in immagini ruvide e potenti, accompagnando con audacia e forza lo spettatore in questa vera e propria discesa agli inferi.
Il risultato è un film inusuale nel panorama cinematografico italiano, così pudico anche quando affronta temi scabrosi, un noir avvincente e di grande fascino. E soprattutto, un film sorretto da una solida sceneggiatura e attori sempre in parte: a parte Elio Germano che non sbaglia un colpo, meritano un plauso Michele Riondino, al suo esordio da protagonista, Valentina Lodovini e la sempre affascinante (soprattutto nei ruoli torbidi) Chiara Caselli. Un film molto attuale, se pensiamo alla frequenza con cui sempre più spesso leggiamo e sentiamo di “bravi ragazzi” che improvvisamente compiono delitti fin ad allora impensabili. Il male oscuro è lì, sembra dirci il film, sepolto, ma basta un attimo e può venir fuori con tutta la sua prepotenza.