Per capire se un film mi è piaciuto la domanda che banalmente mi pongo è ogni volta questa: “Lo rivedrei?” Questo semplice interrogativo mi dà la possibilità di comprendere se un film riuscirà a regalarmi, ad ogni nuova visione, emozioni e dettagli che in prima battuta non avevo considerato e vissuto. L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi, primo film italiano in concorso al Festival di Roma, toglie lo spettatore dall’imbarazzo della domanda, perché si consuma nel tempo stesso della sua visione. Nulla è sospeso, anzi, tutto viene esplicitamente e fin troppo sviscerato e descritto in una sorta di Bignami della sofferenza amorosa, dove i luoghi comuni e la retorica scorrono a fiumi e dove le parole – anche quando belle, anche quando ben recitate – non bastano a suscitare emozioni, ridotte come sono a puro bla bla, a scorza superficiale di una polpa assente. E così le lame inflitte dalla sofferenza amorosa rimangono solo enunciazione e non affondano sanguinosamente nel cuore malato.
Il tutto per dirci che anche un uomo può soffrire per amore alla stregua di una donna, disperandosi, facendo mattina sotto la finestra dell’amata, impazzendo all’idea di lei con un altro, incapace di comprendere e di accettare il perché lei non ricambi i suoi sentimenti. E per dirci soprattutto che la vittima, quando è vittima, dimentica di essere stato, a sua volta, un carnefice e che la disperazione o l’indifferenza non sono sentimenti assoluti, ma ruoli che siamo costretti a giocare in quell’incessante gioco delle parti che si chiama vita. E andrebbe bene, molto bene se per farlo, la Tognazzi (che pure al suo esordio ci aveva piacevolmente sorpreso con Passato prossimo), non ricorresse ad un lungo flashback per dimostrare quest’enunciato di fondo. Se cioè per raccontarci la sofferenza scaturita dalla fine di una storia d’amore avesse saputo rinunciare ad una seconda storia utile esclusivamente a capire la prima, realizzando un film che, seguendo un andamento fastidiosamente didattico – ancor più che didascalico – ed eccessivamente schematico, si limita a descrivere senza tentare la strada dell’analisi. Il risultato è una sorta di fiction da prima serata che tenta disperatamente di elevarsi a cinema, con esiti medi e altalenanti, che anestesizza i sentimenti e non riesce a coinvolgere – e sconvolgere – lo spettatore, non riesce, che ironia! a colpirlo al cuore.
Ed è un peccato per una regista che sa come utilizzare la macchina da presa ed è capace di creare atmosfere anche attraverso l’utilizzo di una splendida fotografia e di una colonna sonora, quella sì di tutto rispetto, di Carmen Consoli, che sa farsi cornice dello stato d’animo dei personaggi senza mai esagerare o sconfinare. Piefrancesco Favino non è credibile, Ksenia Rappoport (dimenticate l’intensa interpretazione de La Sconosciuta) è ai limiti dell’insipienza; ed è così che a uscirne alla meno peggio è proprio la “povera” Monica Bellucci, abbandonata sulla soglia dell’appartamento nuovo di zecca, se non altro perché, rispetto ai suoi precedenti film, riesce qui a svolgere onestamente il suo compito.
I momenti migliori del film sono affidati ai personaggi minori: Piera Degli Esposti, garanzia di una recitazione impeccabile; Michele Alhaique, nel ruolo del fratello gay di Favino, davvero bravo e capace, lui sì, di emozionarci e farci venire quel groppo alla gola che per il resto abbiamo invano atteso dalla storia principale; e la spagnola Marisa Paredes, nel ruolo della collega farmacista che dà vita ad un personaggio quasi almodovariano, fedele in questo al suo stile e alle sue radici. E proprio a lei è affidata la battuta più bella del film, a ricordarci che il dolore provocato da una storia che finisce è pari ad un lutto, che possiamo elaborare, ma mai cancellare del tutto. Impari a conviverci, ma il dolore è lì, e non se ne va.