La stazione è un luogo affascinante, come lo è anche un porto. È un luogo e una immagine simbolica, seppure familiare perché vista tante volte in mille e più film; lì si concentrano e si incontrano, infatti, i desideri, le speranze e i sogni di tanti esseri umani. Le persone si separano e scambiandosi saluti si abbracciano, talvolta piangono, altre invece si ricongiungono ed è così che in questo luogo la malinconia e la gioia si esprimono più fortemente e liberamente che altrove. È un luogo di folla, dove si intersecano le diverse tipologie umane che, anche senza fondersi, si scambiano sguardi curiosi e si rispettano, forse perché riconoscono la matrice comune delle aspirazioni di ognuno. I rumori si sovrappongono e compongono una sorta di sinfonia corale che rende tutti vitalmente partecipi. Un bel posto, non privo dei rischi e pericoli che talvolta rendono più interessante la vita, non fosse altro che per acuire le capacità per cercare di evitarli.
Le persone che si muovono al suo interno sono animate da una strana energia ed euforia, il viaggio è metafora di esistenza vera, di coraggio, di libertà, di disponibilità all’incontro con l’altro, di generosità o anche di fuga, ma è sempre ricerca di amore e di amicizia, di fortuna.
Nelle hall delle stazioni, spesso immense, oltre a questo brulicante insieme colorato e chiassoso, tuttavia si muove anche un altro popolo, una massa informe che vuole confondersi tra la folla ma che è segnata dalle difficoltà e dalle privazioni, talvolta devastata dall’alcool e da droghe distruttive, affamata e sporca. Eppure è presente da sempre in questo luogo, ci vive in una forma di simbiosi, fa parte di esso come i viaggiatori in cerca di fortuna, i macchinisti, i poliziotti, tutte parti di un quadro movimentato dell’esistenza. O forse, più materialisticamente, occorre dire che questa massa di poveri ha avuto quasi sempre una sua parte dentro il processo sociale messo in atto all’interno di uno snodo urbano significativo quale è la stazione di una grande città.
Ecco, di questo quadro ci viene restituita un’immagine parziale, almeno rispetto alle aspettative. Pensavamo che il legame venisse esplorato, che ci rivelasse qualcosa che ci aiutasse a decifrare l’enigma e le contraddizioni della coesistenza di questi universi paralleli, che servisse a interrogarci meglio e più profondamente. Non è così.
Il regista, osannato, compare timidamente sul palco al termine del film, è poco più che un ragazzo ma appare molto determinato. Ci racconta che ha passato quattro mesi alla Stazione Termini -senza mai dormirci però passandoci più notti- senza mai dividere il luogo con le creature che l’abitano. Ha chiarito subito che il suo era uno sguardo neutro, anche se empatico, lo sguardo dell”artista” -che di per sé è tutto tranne che neutro. Poi è stato un anno e mezzo in sala di montaggio.
Alcuni dei personaggi più “famosi” di questo popolo -le sorelle siciliane (in sala erano presenti molti operatori sociali che hanno fatto domande illuminanti) ad esempio, insieme a molti altri- si sono rifiutati di essere ripresi e di partecipare al gioco della presunzione (che non è presupposizione) della realtà.
Il documentario di Pampini ha una componente, forse la migliore, che affida al ruolo dell’attore, che impersona un personaggio presunto di quel mondo, un tossico omosessuale, la parte di creare il nesso, il legame tra gli spettatori e i protagonisti che vengono mostrati , con indubbia perizia tecnica, nella loro sostanziale inespressività.
Il regista ci fa sapere infatti che i problemi che li hanno portati alla strada sono più o meno gli stessi per tutti, in genere una mancanza di autostima dovuta a traumi familiari, separazioni dalla famiglia, che li ha condotti ad una depressione paralizzante. Si trovano lì perché la stazione, tranne due ore in cui viene sgomberata per pulizie più radicali, è sempre aperta, ed anche perché lì è più facile praticare l’accattonaggio. Forse il fascino della stazione è riservato solo a taluni sognatori, lettori, viaggiatori, spettatori, insomma flaneur di ogni quando e dove. Per i barboni (chiamarli clochards o hoboes sarebbe già ammantarli di una aura romantica che sembra non posseggano) esiste invece solo la necessità di sopravvivenza, e la durezza scolpita nelle loro facce e i loro sguardi inebetiti sono lì a dimostrarlo. Per questo, per tirare fuori un po’ di vita, serve l’espediente dell’infiltrato, dell’attore, del finto tossico che dialoga con loro e li stimola imbastendo scarne conversazioni che dovrebbero dimostrare la loro umanità e la loro poesia. Troppo poco signor regista.
Le citazioni felliniane dei grandi seni della pubblicità -per stessa pudica affermazione del regista, sollecitato al riguardo da una domanda- confermano la sensazione della superficialità dello sguardo, teso a confezionare un prodotto raffinato e sostanzialmente di maniera.
Un personaggio ci ha colpiti, però. Si tratta di un ladro. Precipitato nell’abisso, egli vuole e riesce a differenziarsi e a tirare fuori la testa dalla macilenta palude. Lo fa tramite maniere civili e una decenza nel vestire, lo fa tramite la confessione, tramite il racconto del male che ha commesso principalmente verso se stesso. Chi impersona veramente questo inquietante personaggio ? A volte è meglio porre una domanda, soprattutto quando le risposte appaiono insoddisfacenti.
l’incipit del tuo pezzo sembra un’atmosfera di simenon! poi, almeno un po’, tendi a redimere l’ambiente (chi ti conosce sa che è una sirena irresistibile!). e se invece quelle aspirazioni diventassero solo sedili consunti e fumo di sigaretta? scherzo 🙂 è che le prime righe mi hanno fatto partire un film!