Il tappeto rosso del festival sembra quasi muoversi lungo una diagonale, in una possibile via di fuga che allungherebbe la vita a una manifestazione il cui divenire ha assunto direttive – più che direzioni – sempre più incerte. Eh sì, perché le persone pigiate sulle transenne -non tante ma nemmeno poche al punto da costituire una resa- sembrano anche loro muoversi lungo un’orbita confusa: avanti e indietro, dentro e fuori e poi ancora dentro, quasi fossero dei ballerini sospesi in un rallenty all’unisono, etereo e però massiccio, o come fossero figure – dimentiche dei corpi pesanti – perse in un impossibile inseguimento dello spettro della massa che fu -il perduto passaggio del mito che, uniti e felici, ci proietta oltre.
Scriveva Elias Canetti, in uno dei suoi veementi paradossi verticali, che “Si scrive per essere diversi. Chi imbroglia scrivendo rimane ciò che comunque è”. Si tratta di avere, cioè, una consapevolezza sulla direzione del proprio lavoro, forse anche della propria esistenza. Dove le memorie in bilico e le vite osservate, così come quelle vissute e quelle possibili, e la vertigine della scoperta dei saperi conducono sia i passi visibili che le interiorità degli artisti a ricercare le immagini perdute, i significati incrostati, gli orizzonti intravisti ricomponendoli, infine, in un (nuovo e diverso) rispecchiamento costitutivo atto a sfuggire tanto la spiegazione facile (coincidente spesso con quella realistica, legata al buon senso e al mantenimento, più che alla comprensione, dello status quo – di recente ci hanno costruito sopra anche una filosofia) quanto l’eccesso di leggerezza che rende immateriale, più che effimero, il miraggio.
Andrea Tonacci (Jà visto jamais visto), Elisabetta Sgarbi (Due volte delta) e Virginia Eleuteri Serpieri (My sister is a painter) partono tutti dalla propria condizione -necessaria, si direbbe- per riannodare i fili del tempo, dei luoghi e degli affetti. Tonacci arriva a dichiararlo: “ho iniziato a fare il film nel momento in cui mi sono reso conto che stavo cominciando a perdere le immagini”. Una perdita che coinvolge la memoria ma anche la materia: emulsioni che reagiscono dentro il fotogramma nel caso di Tonaccii; dettagli, confronti e riconfigurazioni necessari a delineare corpi, piani e tempi di ipotesi e azioni (geografie dell’arte e perimetri del trauma) in quello di Eleuteri Serpieri; visione ad altezza d’uomo nel lavoro di Sgarbi (esemplare la sua scelta di ricerca del sacro tramite l’abolizione dello sguardo dall’alto – onnipotente, borghese e cattolico – messa a tema nella scena che vede il movimento della mdp accogliere il camminare del cane).
In un suo bellissimo saggio sul pittore turco Seker Ahmet, John Berger, citando Heidegger, suggerisce come il quadro Taglialegna nella foresta rappresenti benissimo il senso dell’affermazione “approssimarsi della lontananza”, ossia, sempre nella riflessione di Berger, il movimento reciproco che vede il pensiero avvicinarsi a ciò che è lontano e ciò che è lontano avvicinarsi al pensiero. Il presente, dunque, è una presenza che possiamo percepire se solo consentiamo a questo avvicinamento di fare il suo corso e raggiungerci. Per far sì che ciò accada occorre, tuttavia, una grande attenzione e una grande apertura sia a ciò che si vede che a ciò che (ancora) non si vede. Ai rapporti, cioè, alle forme stabili che li abitano e alle foreste che in lontananza si muovono verso di noi.
Ricomponendo anche questa piccola riflessione a margine (alcuni di questi lavori verranno rivisti e indagati più approfonditamente, vista anche la complessità dei temi e della messa in scena), vogliamo coinvolgervi in una delle tante suggestioni innescate dal bellissimo lavoro di Virginia Eleuteri Serpieri, che potrebbe grossomodo tradursi così: l’utopia è anche sempre una nostalgia: troppo lontana e al tempo stesso troppo vicina, consente all’artista di spostarsi e fermarsi, esploratore e custode, come un angelo incapace di andare avanti senza smettere di guardare indietro. L’artista, in questo modo, diventa il dispositivo tramite cui la perduta visione diventa presenza.
bellissimo pezzo Alessia, io ho sempre bisogno di leggere più volte i tuoi scritti per farmene penetrare, ma sempre ne vale la pena, ad ogni lettura viene aggiunto e viene svelato qualcosa che nascendo dalle parole e dalla loro musica si volge al profondo, all’immenso, e il naufragar m’è dolce in questo mare