Quando ci si confronta con un capolavoro assoluto, o si ha la capacità di reinterpretare il gigante, o la sua ombra renderà l’operazione fallimentare in partenza.
Qui si è persa una preziosa opportunità di utilizzare una sceneggiatura di ferro per raccontarci qualcosa di profondo sull’odierna Cina e sulle dinamiche sociali-culturali-politiche attive nel suo contesto, come fece ottimamente Nikita Mikhalkov, relativamente alla Russia, con il suo “12”.
L’apprezzabile trigger della simulazione di un processo all’americana all’interno di un corso di giurisprudenza e le piccole pennellate che hanno ricontestualizzato i personaggi nella diversa realtà di tempo e di luogo non sono bastati ad emancipare una storia che ripropone piattamente gli stessi ruoli e le stesse interazioni della sceneggiatura di Reginald Rose e che si rivela dunque noiosa e prevedibile per chi ha in mente la pellicola originale di Lumet.
Anche le aspettative di vedere un auspicabile tocco asiatico nella regia naufragano miseramente in un’infinità di carrelli e primi piani da fiction occidentale e la tensione, creata magistralmente da Sidney Lumet con differenziazioni di lenti e abbassamento del punto macchina per rendere la claustrofobia della situazione, qui si perde in una restituzione piatta di un evento che non riesce a coinvolgere emotivamente nonostante la pur interessante interpretazione degli attori.
Ci è sembrata un’operazione commerciale, strizzante l’occhio all’occidente, rivolta prevalentemente a un pubblico asiatico che presumibilmente non conosce le opere dei predecessori di Ang Xu e a cui si propone uno pseudo-thriller U.S.A. in salsa cinese. Successo assicurato.
Insomma per chi scrive, europea, amante del buon cinema, l’unico merito di questo film è di far venire la voglia di rivedere La Parola ai giurati (12 angry men). Che forse i votanti, che hanno portato alla premiazione di 12 citizens nella categoria Cinema d’oggi, non hanno mai visto.