170 minuti sono diventati ormai una durata non più comune per un lungometraggio, particolarmente nel tempo in cui stiamo vivendo, dove non tanto la velocità quanto il contenimento e la misura della durata sembrano essere diventate qualità intrinseche affinché un film venga fruito, nel migliori dei casi elaborato, quasi sempre dimenticato al momento dell’uscita dalla sala cinematogafica. I nostri sensi sono portati a percepire una ricostruzione del tempo della realtà dove, come diceva Truffaut, nella differenza tra cinema e vita, non ci sono le parti noiose. Ma se nell’accezione dell’enfant sauvage del cinema francese le parti “non noiose” della vita/cinema coincidevano con gli umori e le espressioni più intime, profonde ed intense degli esseri umani in relazione con loro stessi e con gli altri -l’autenticità che va oltre la superficie del quotidiano e dell’ovvio-, nel cinema contemporaneo a volte sembra esserci la preoccupazione a “non annoiare”, sacrificando intrinseche necessità dei personaggi e della storia, senza così scomodare paroloni come sguardo o visione d’autore, sull’altare della presunta capacità o, in maniera già sminuente e limitata, resistenza del generico, astratto pubblico di un’epoca che coniuga più facilmente i verbi con l’iindefinito gerundio che con la precisione di passato, presente e futuro.
La durata di Hard to be a God, diretto da quello che è forse il più misterioso e radicale cineasta russo, Aleksej Jurevic German, già sulla carta preannunciava dunque un impegno notevole. In realtà si trattava di una semplice indicazione, perché questo film, che racchiude in se tutto il mistero e la radicalità del suo autore, trascende il concetto di durata filmica e si pone nel solco sempre più raro dell’esperienza in cui si entra nel tempo di un mondo parallelo e non speculare al nostro: la soggettività dello sguardo che osserva, trasfigura e conduce ad uno stato altro di percezione, come se si fosse assunta una qualche sostante dopante, pur mantenendo una lucidità e un controllo di forma e contenuto nella chiave del seguente imperativo: fai abitare il tuo cinema dalla follia, la magniloquenza, la più infima degradazione della natura umana e la più disperata aspirazione al senso del sacro senza esserne sopraffatto, riuscendo anzi ad insinuare ironia, amaro disincanto e perfino squarci di malinconia jazz.
In un bianco e nero espressionista di bellezza rara e perduta, e di cui il ricordo più vivido risale, non a caso, all’Andrei Rublev di Tarkvoskij, comincia il viaggio dentro il tempo dello sguardo, attraverso una serie di lunghi, estenuanti piani sequenza, che riflettono nella forma il senso di una realtà a sua volta estenuante, devastata , regredita ad uno stato animalesco. Sembrerebbe il Medioevo della terra, si tratta invece dell’equivalente epoca storica di un pianeta gemello, Arkanar. Ad attraversarlo è uno scienziato terrestre, Rumata, che ha più le sembianze e l’armatura di un Don Chisciotte di fango e carne o di un Cristo pagano e profanato nel segno della violenza e del sangue. La sua missione è evitare le condanne a morte, eseguite in modi bruschi e barbari, degli intellettuali, gli artisti e gli scrittori, per preservare il barlume di coscienza e di bellezza che può salvare un mondo -che abbiamo conosciuto e che potremmo conoscere di nuovo- dall’autodistruzione delle tenebre.
La fonte d’ispirazione è un romanzo di fantascienza russo dei fratelli Boris e Arkadi Strugatski, ma poco importa saperlo o avere altri riferimenti sulla cultura russa. Certo, Hard to be a God è un film profondamente russo nello spirito e nella forma, con i suo interrogativi filosofici ed esistenziali sulla presenza di Dio e di pietas in un mondo oscurato e sopraffatto dal Male. E lo è anche nell’utilizzo dei paesaggi naturali, ora come specchio del degrado ora come ricerca di bellezza e perfezione divina oltraggiate e mortificate, e nell’estetica del piano sequenza, che trasmette il susseguirsi degli accadimenti come un movimento circolare che contiene tutto l’esperibile dell’umano, dal sublime all’abominevole, dal caritatevole allo spietato.
Ma porsi davanti a un simile oggetto filmico rappresenta, di per se, entrare a far parte del suo processo fenomenologico: quello che succede si fa o disfà davanti ai nostri occhi e la mdp registra le reazioni, gli umori e le smorfie dei volti e dei corpi, anche loro così intrinsecamente russi ma della Russia senza confini che estende il suo territorio fino alla Mongolia, appartenenti agli “attori” chiamati ad essere i segni di un viaggio nell’abisso che è anche la discesa nella grotta arcaica di un inconscio collettivo rimosso in cui potersi guardare in faccia, i presunti civilizzati con i cosidetti barbari. Spesso quegli “attori” truccati realisticamente nel dettaglio di tagli, ematomi e lividi, guardano in silenzi di sconcertante imbarazzo direttamente in camera, ed è emozionante riconoscere la parvenza di dolore autentico, di fragilità che si cela sotto il lerciume dei freaks, dei reietti, dei dimenticati da Dio.
C’è anche tanta luce, o ne viene comunque fatta avvertire la possibilità, tra le immagini fitte fitte di corpi straziati e sgozzati, esecuzioni, decapitazioni di teste umane e animali, stupri, pestaggi di selvaggio e lussurioso compiacimento, disgustose contaminazioni tra i momenti dell’approvvigionamento del cibo e quelli in cui si esplicano i propri bisogni fisiologici elementari, una vertigine attraverso la quale entriamo in contatto, come raramente e forse mai è accaduto al cinema, con le viscere infettate, l’antro oscuro, della nostra umanità.
Più volte la tentazione è quella di chiudere gli occhi, o di alzarsi dalla poltrona e andarsene, tornare in luoghi estetici e narrativi più rassicuranti, famigliari, prevedibili, dove pensiamo di poter mantenere un controllo che invece il protagonista Rumata, identificandosi con la funzione divina e dilaniato tra la scelta di salvare o lasciar soccombere, uccidere o provare compassione, lascia completamente, abbandonandosi e poi perdendosi dentro il caos. Ma oltre che estenuante, l’esperienza della visione di Hard to be a God si merita un altro aggettivo:Implacabile. C’è l’impulso a fuggire, a distogliere lo sguardo da tanto orrore che, nella progressione e nell’accumulo, ci fa completamente dimenticare la cornice fantascientifica del racconto e avvicinare sempre di più ad un’iconografia della miseria umana marchiata a fuoco nel DNA del nostro sguardo nel corso di guerre e di devastazioni di ogni epoca, ma c’è anche una forza che inchioda letteralmente alla poltrona, che spinge a continuare a vedere non tanto per soddisfare un pulsione scopica di morte e tortura. Lo sguardo di German è intriso di una pietas, che il mondo che filma e il suo anti-eroe, RumataDio,&nbs
p; sembrano non potersi permettere, tesa implacabilmente a scavare dentro gli spettatori, lasciando sul fondo, dietro il senso di repulsione e attrazione per il bailamme di voci, corpi, suoni e suggestioni paesaggistiche, l’eco profondo di un dolore e uno sconforto, oltre il tempo e lo spazio……e malinconiche note jazz ad accompagnarci in questo risveglio.