Non abbiamo termini di paragone sufficienti per entrare nel merito della valutazione di una giuria che ha voluto Marfa Girl miglior film a Roma 2012, un festival nato male in tempi di vacche grasse, di cui il neo-direttore Marco Mueller sta tentando con coraggio e coscienza di rinnovare la formula, in un’operazione di sprovincializzazione quanto mai imprescindibile, anche se forse un po’ incautamente messa in atto.
Mentre il glamour alla matriciana è sembrato cedere il posto a sapori esotici e wonton, il nostro percorso di visioni ci ha portato immancabilmente a frequentare i territori meno battuti dal pubblico di CinemaXXI, sezione che, sulla carta, prometteva le figurazioni più fresche ed esplorative, al riparo dai flash e dal silicone dei pur ridotti tappeti rossi. Finché, non senza sconforto per l’inconsistenza delle prime proiezioni (lo sfilacciato e farraginoso Centro historico, l’intimismo di retroguardia di Amos Poe, lo sperpero virtuosistico di storytelling nel film di Mike Figgis) ci siamo riparati temporaneamente nelle sale del concorso internazionale, come naufraghi sballottati alla ricerca di un lido stabile. Si è trattato di una debolezza passeggera, Il tempo di tirar fiato prima di rituffarsi in acque agitate ma, come ci era già capitato due anni fa per Kill me Please, il caso ha voluto che ci imbattessimo ancora una volta nel film destinato a ricevere il non sappiamo quanto meritato riconoscimento (ripetiamolo pure: per mancanza di raffronti).
Veniamo dunque a Marfa Girl, prodotto dal respiro indie e sempre ammiccante a una sessualità teen compiaciuta e maledetta, nel solco della produzione precedente di Larry Clark, eppure differente, meno fotopatinato e a suo modo più teso, plastico, “realista” nella via americana. Deve aver contribuito la location speciale, ai confini dell’impero e crocevia di istanze antinomiche.
Le informazioni su Marfa, Texas, le ricaviamo dalle note di regia e da un giro sul web. Popolazione 1800, con percentuale consistente di immigrati latinos e naturalizzati. Nonostante un presidio ingombrante di polizia frontaliera, almeno un centinaio di chilometri di distanza dal confine col Messico. Coprifuoco notturno per i minorenni che, a norma di legge, possono ricevere pene corporali, dall’asilo fino a tutti gli anni del liceo. La presenza di una dinamica comunità artistica locale richiama da tutti gli States giovani creativi in residenza, sotto l’ala protettiva della Chinati Foundation, dedicata all’attività dello scultore Donald Judd, esponente della corrente del cosiddetto minimalismo americano.
Ce n’è abbastanza per solleticare la vena “sociale” di Clark, il gusto per l’affresco generazionale delimitato dalla condizione di precarietà esistenziale endemica di un sobborgo survoltato dall’inconsueta presenza hipster.
Sotto un cielo violaceo perennemente sgombro di nuvole, il regista-fotografo mostra i suoi personaggi, giovani e meno giovani, legati dal comune destino del dover tirare avanti nel medesimo buco pseudo-rurale, e tuttavia divisi da invisibili recinti culturali, sociali o etnici.
Catalizzatore delle dinamiche narrative del film è il sedicenne Adam, la testa sulle spalle, sangue messicano nelle vene e una tavola da skate per spostarsi rapido e collaudare nuovi tricks. Il ragazzo vive alle porte del villaggio con la madre Mary, delusa dagli uomini e votata alla cura amorevole di diversi pennuti addomesticati. Adam è il soggetto di una sessualità curiosa e relativamente aperta. Benché disponibile a farsi sculacciare dalla giovane insegnante sexy e in cinta, a lasciarsi sedurre da una vicina, sposata con il marito in galera, il ragazzo tenderebbe verso la monogamia, sfociando in una relazione stabile con la coetanea Ines.
Il suo percorso di formazione all’eros è perturbato anche dal ruolo guida di un’artista-in-residenza di poco più grande, bianca hipster di buona famiglia e buone letture, dalla promiscuità sbandierata e con un debole per i messicani calientes che, tra un rapporto occasionale e l’altro, sembra prendere a cuore l’educazione sentimentale dell’adolescente.
Adam e sua madre sono anche l’oggetto della sessualità repressa e violenta di Tom, agente di frontiera dal passato oscuro, razzista e autoritario, morbosamente attratto dalle malformazioni genitali femminili, di cui si ostina a raccogliere e mostrare ingrandimenti fotografici presi da internet. Mentre Adam e i suoi amici suonano dell’ottima musica in garage, leggono e disegnano, fanno sesso e fumano hashish, recuperano pratiche taumaturgiche della tradizione india, ossia affrontano stoicamente desolazione e noia suburbana convertendola in sostanza culturale consapevole e partecipata, Tom, inviso ai suoi stessi colleghi, trascorre ore solitarie davanti a un pc o sfoga i suoi istinti sessuali, pretendendo prestazioni orali da ragazze infelici e disilluse.
Consumato dalle immagini web di endoscopia ginecologica, una collezione di fucili a decorare le pareti della sua stanza, Tom incarna la nostra metà oscura, sociopatica e autoreclusa, sorta di hikikomori senile in salsa texana e in avanzato stato di disfacimento.
La negatività assoluta del personaggio (avvicinabile a quella del Bobby di Bully, o del padre alcolizzato in Ken Park) raccoglie sulle proprie spalle, forse caricandolo di un simbolismo esacerbato, il peso del fallimento di un intero assetto sociale, predisposto scientemente per fiaccare il senso comunitario e allontanare e isolare gli individui. Nel suo ruolo di fiancheggiatore del sistema, il poliziotto Tom si sente minacciato dalle pratiche di resistenza quotidiana di un underworld che si sottrae alle sirene del terrore securitario, della xenofobia e del conformismo. Ma di là dallo stile di vita alternativo, egli scorge, disdegna e invidia in Adam e nella sua accolita, un baricentro morale ed emozionale, una prospettiva di riscatto attraverso la messa in comune delle risorse esistenziali, un socialismo del desiderio.
Clark lavora sulla rarefazione del tempo filmico, adeguandolo alla spazialità indolente delle latitudini meridionali. Anche la sua fotografia si accende e si accalora, impregnandosi degli arancioni e dei gradienti pastello dei tramonti texani. L’erotismo compulsivo, borderline e anoressico dei primi film (Kids… Bully) non è qui del tutto eclissato, ma si ammorbidisce e prende un incedere più contemplativo, riflettendo il passaggio, nella filmografia di Clark, dagli acidi e anfetamine dei kids urbani, alla weed biologica auto-coltivata.
L’impalpabile progressione del film, nella sua prima porzione, non è procurata tanto dalla concatenazione di avvenimenti definiti sull’asse dell’azione, quanto dalle traiettorie dialogiche dei personaggi. Contrariamente a ciò che avviene in tanto, pessimo, cinema
italiano contemporaneo, tuttavia, in Marfa Girl, né il dialogo è escamotage per dissimulare un’inadeguatezza visuale, né l’impianto complessivo della vicenda e la plausibilità dei caratteri risentono dell’eccesso di scrittura. Gli intepreti, quasi tutti alla prima esperienza, appaiono perfettamente a loro agio, sia in modalità “cazzeggio”, che quando messi alle strette a sostenere argomentazioni più articolate, e in pieno controllo del gesto drammatico.
In una sequenza indimenticabile, la vicina di casa racconta alla mamma di Adam di essersi ripresa a fatica dal lutto per la morte del proprio gatto. Mary sembra comprendere perfettamente il dolore dell’altra, anche lei è stata sconvolta dalla morte di uno dei suoi uccelli. La conversazione prosegue con una descrizione dei diversi sistemi di sepoltura scelti dalle due donne per le loro amate bestiole. Nessuna ironia nel registro adottato da Clark e tuttavia il rischio di comicità involontaria qui era fortissimo. Invece la tensione dello strorytelling, l’informazione extralinguistica, la corrente empatica tra le due attrici è tale che il risultato strabilia per intensità e compostezza.
Ultima annotazione. Larry Clark ha stabilito che il suo film si gioverà esclusivamente di una distribuzione online sul suo sito, scavalcando la contrattazione al ribasso con i “capomandamento” dell’entertainment hollywoodiano, e sfuggendo alla strangolatura che il prodotto indie subisce nel suo percorso a ostacoli verso quella che dovrebbe esserne la foce naturale, quei “wonderful old smaller theatres”, mono-sale indipendenti e cineclub, in via d’estinzione ovunque nel mondo. Se il merito di questa pratica sta, senza dubbio, nel rendere accessibile istantaneamente e democraticamente il film al pubblico mondiale nella sua forma originale, senza censure e aberrazioni di doppiaggio, non è che l’esclusiva visione casalinga e individuale del cinema, non socializzata e ritualizzata dalla frequentazione collettiva di un luogo designato, rischia di trasformarci un po’ tutti in una versione cinefila dell’agente Tom?