Carlo! concorre nella sezione Prospettive Italia della settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. E’ un’opera godibile e divertente quella di Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni, che di certo fa leva su un repertorio cinematografico e televisivo di comprovato successo e sull’innata simpatia del personaggio Verdone, visibilmente disponibile al gioco dell’intervista, ricca di spassosi aneddoti sul suo lavoro e sui rapporti interpersonali, ma ha il pregio di raccontare con vivacità e buon ritmo di montaggio la storia dell’attore, del regista e dell’uomo Carlo senza cadere nelle potenziali insidie celebrative tipiche del biopic.
Il documentario dà infatti l’impressione di volersi soffermare soprattutto su ciò che ha rappresentato, e in buona parte rappresenta tutt’oggi, l’icona dell’autore romano nell’immaginario collettivo a partire dagli esordi in tv sul finire degli anni Settanta nella trasmissione No stop e, al cinema, con la regia dello strepitoso Un sacco bello. Il ritratto passa attraverso le parole dei suoi collaboratori, degli attori, dei critici, degli amici e dei familiari nonchè attraverso foto inedite e filmati amatoriali resi ancora più intimi dalla rivisitazione in loco degli spazi privati – la casa paterna, quella “sopra i portici” dell’omonimo romanzo autobiografico -, e quelli pubblici di Ponte Sisto, Ostia e degli Studi di Cinecittà. Se da Carlo! non emerge, in definitiva, una figura molto lontana dagli stereotipi sul cinema verdoniano e dalle leggende sulla personalità dell’artista, è altrettanto vero che per la prima volta uno studio sul regista di Borotalco, si tratti di una monografia scritta, di un saggio o di un reportage, mette a fuoco l’aspetto fondamentale, forse quello più interessante, della sua ricerca espressiva: la tecnica dell’attore. L’indagine svolta da Ferzetti e Giagni ripercorre le origini della vocazione mimetica, rievoca la nascita dei primi personaggi attraverso l’imitazione della voce e del comportamento gestuale di soggetti “anche grigi e mediocri” sorpresi nelle loro imperfezioni, nei tic caratteristici, nell’assurdo, spesso ridicolo, atteggiarsi nei confronti degli altri.
L’interpretazione di quelle maschere ormai passate alla storia, come Mimmo, l’irrecuperabile imbranato di Bianco Rosso e Verdone, Ruggero, l’hippie sfrontato e disobbediente di Un sacco bello, Manuel Fantoni, il giramondo latin lover, fanfarone e opportunista di Borotalco, o come Raniero, il medico logorroico di Viaggi di nozze, passa attraverso un’osservazione della realtà quasi ossessiva e un’attenzione al dettaglio così minuta da gettare istantaneamente le basi per la successiva esasperazione del carattere. Oltre al racconto del noto timore di “scomparire” assieme alle macchiette dei primi film, affiora la testimonianza – nuova e spiazzante, considerata la proverbiale dipendenza dalla scuola di Sordi – di una fonte primaria di ispirazione nelle figure di contorno della grande commedia all’italiana, nei comprimari di lusso come Leopoldo Trieste, e al cinema di Pietro Germi come al modello di riferimento per i suoi film più ambiziosi. Il valore attribuito ai ruoli di second’ordine si riflette, nel cinema di Verdone, nella scelta mirata degli attori cui destinare parti piccole ma incisive: si pensi al Mario Brega delle prime pellicole, alla Elena Fabrizi di Bianco Rosso e Verdone e Acqua e Sapone piuttosto che all’Angelo Infanti del suddetto Borotalco o di In viaggio con papà; oppure all’Angelo Bernabucci di Compagni di Scuola, che il documentario mostra al momento del casting per il film, autentica perla per i fan del cineasta capitolino. I momenti migliori della pellicola, quelli più caldi e autentici, sono però rintracciabili, a nostro parere, nelle confidenze che gli amici più intimi e i familiari rivelano di fronte all’obbiettivo puntuale della macchina da presa; il Carlo che vieni fuori dalle dichiarazioni dei due figli è infatti un padre imperfetto ma capace di riscattarsi, mentre il regista/interprete di Posti in piedi in Paradiso, che dirige Micaela Ramazzotti, Pierfrancesco Favino e Marco Giallini appare sul set come un professionista disponibile all’ascolto e in grado di accettare i consigli altrui, un uomo sensibile e consapevole dei propri limiti. Chiamato a rivivere i ricordi d’infanzia nei luoghi che l’hanno caratterizzata Verdone si abbandona ad alcuni istanti di commozione e il film si carica di una nostalgia sottile e rarefatta simile a quella delle sue opere, indice questo di una sincera partecipazione emotiva al progetto che lo riguarda in prima persona.
Oltre a questi meriti, degni comunque di nota, c’è senza dubbio un film che rimane sempre ad un passo dall’approfondire veramente, che preferisce “servire” più che rielaborare, guardare a schiaffo in panoramica piuttosto che concentrarsi su un aspetto illuminante per i suoi rimandi osmotici tra l’autore e l’opera. Un passo in più e Carlo! avrebbe sdoganato il plauso ben oltre la curva dei fan, ma rimane un affresco coinvolgente e appassionato.