“Peccato poteva essere un po’ più corto..” Il commento a caldo di una spettatrice terminati i 140 densi e al tempo stesso leggeri, quasi aerei minuti di Un enfant de toi di Jacques Doillon mi lascia quantomeno spiazzato e mi spinge a porgermi una domanda: Che cosa vuol dire più lungo o più corto? Con quale metro si stabilisce la durata esatta, precisa di un film che parla delle relazioni umane? La risposta in fondo me l’ero già data durante la proiezione del film, semplicemente perchè non mi sono posto la domanda, ma mi sono abbandonato al flusso di parole, sensazioni, umori che si respirano dentro lo schermo, annullando una percezione condizionata, indotta del tempo da forme narrative rigide che hanno la pretesa di stabilire cosa debba essere più corto e cosa più lungo, tralasciando la possibilità che i film, concepiti come veri e propri organismi, siano dotati di un ritmo interno e che lo spettatore sia chiamato ad essere ascoltatore attivo e partecipe. Per fare questo, ovviamente, bisogna andare a toccare delle corde che siano profonde e quotidiane insieme, banali ed eccezionali, bisogna avere la capacità di vedere l’universale e l’assoluto nella piccolezza dei gesti e dei particolari della vita di tutti i giorni.
Tanti giorni, ore, minuti, momenti che osservati nel loro scorrere restituiscono il senso del tempo della vita, per cui il tempo del cinema ne diventa quasi lo specchio, la rielaborazione che va a illuminare dei dettagli significativi. L’intreccio di Un enfant de toi propone una situazione molto convenzionale del cinema francese, quella del menage a trois, con Aya, la protagonista interpretata da Lou Doillon, incrocio tra la delicatezza di Charlotte Gainsbourg (di cui è la sorellastra essendo la figlia di Jane Birkin e dello stesso Doillon) e la brusca energia di una giovane Patti Smith, divisa tra l’amore viscerale, indissolubile per Louis, l’ex compagno e il legame apparentemente stabile con Victor, il nuovo partner, entrambi portatori a loro volta di due modelli maschili opposti: il primo sensuale, ironico, infantile; il secondo più razionale e rassicurante, seppur anche lui infantilmente attaccato ad un’idea di possesso nei confronti dell’irrequieta Aya.
Il tutto è incorniciato e alleggerito dal controcampo della figlia di sette anni di Aya e Louis, sguardo impertinente e curioso sulla vita degli adulti, che tiene un po’ le fila del gioco, del rendez vous tra i tre personaggi che ruotano intorno alla sua esistenza e ai quali,invece di chiedere o imporre, sembra offrire soluzioni e possibilità, con tutta la saggezza e il buon senso di cui sono capaci solo i bambini (più defilata la nuova compagna di Louis che si tira indietro molto presto, comprendendo da subito come si concluderà la partita).
La trama è tutta qui ed è al contrario impossibile restituire le trame di sensazioni, gli spostamenti e i movimenti del cuore e del pensiero che provoca seguire il flusso di questi personaggi, il loro rincorrersi, parlarsi, piangere e ridere, come se quella precisa, esatta emozione nascesse in quel momento e Doillon stesse lì a filmarla, alla stessa maniera di un documentarista dei moti dell’anima.
La mdp non ha infatti dei movimenti predeterminati e questo è chiaro non solo dall’uso abbondante dei piani sequenza in cui gli attori, agganciata l’emozione e la condizione psicologica del proprio personaggio in quel determinato momento, sono liberi di seguire la necessità e la spontaneità dei loro gesti. Gli stessi campi-controcampi durante alcune conversazioni a due sembrano seguire la circolarità della comunicazione,chiedendo una partecipazione, anche a chi guarda, davanti alla quale ci si può abbandonare senza riserva o scegliere di rimanere estranei, fuori da quel tempo.
Non c’è spazio per il voyeurismo nello sguardo di Doillon perché l’intimità, parafrasando Giorgio Gaber che invece si riferiva alla libertà, è partecipazione, come se non si sentisse attraverso quello che si vede, ma si vedesse attraverso quello che si sente.
Proprio per questo le immagini sono pervase di una luminosità, di una lucentezza che si armonizza con grazia ed intensità all’assoluta trasparenza dei personaggi, al loro rivelarsi in umanissime debolezze e paure, all’uso di un linguaggio – aspetto non secondario in un film che utilizza molto la parola per creare una dimensione razionale intorno agli incontenibili e incomprensibili tumulti delle passioni – in grado di essere esplicito e diretto quando si parla di sessualità e impietoso e struggente nel definire il punto in cui a certo momento si trovano le vite dei protagonisti, con Aya che dice a Louis “Non mi amo più quando sto con lui e comincio ad odiarmi quando sto con te”.
Una volta Mario Martone, accusato da uno studente di cinema di essere troppo “napoletano” nella scelta delle sue storie, rispose “Accuseresti forse Ozu di eccessiva giapponesità?”, e a una medesima accusa, quello di essere troppo “francese”, credo che Doillon potrebbe rispondere con la stessa argomentazione che in fondo suggeriva Martone: se i personaggi del suo cinema non fossero cosi profondamente, intimamente, spudoratamente francesi ma si uniformassero ad un’idea generica e astratta di esseri umani, allora si che ci troveremmo davanti a un cinema realmente presuntuoso, cervellotico, superficiale… Solo partendo da una specifica identità sociale e culturale si può arrivare all’essenza dell’umanità, ci si riconosce anche e soprattutto nelle differenze e nelle peculiarità e non tanto in una generica e imprecisa idea di uguaglianza come se esistesse un modo di essere uomini e donne che va bene per tutti.
Per questo il cinema di Doillon è un interlocutore con cui ci si appassiona ad entrare in relazione, perchè è come se la vita ed il cinema si sovrapponessero e come se l’amore e il rispetto per l’una alimentassero, rigenerassero in continuazione le possibilità espressive dell’altro.
L’amore fugge è il titolo con cui Francois Truffaut concludeva la saga di Antoine Doinel ma potrebbe essere anche un buon modo per definire l’idea di cinema di Doillon, quella di un movimento continuo senza soluzione di continuità, dove un’azione non comincia e non finisce e dove al pianto doloroso può seguire una risata sfrenata, giocosa.
Complimenti per la splendida recensione che coglie pienamente tutti gli aspetti di questo film così etereo e profondo da restare, purtroppo, troppo spesso incompreso da chi non lascia spazio nelle sue visioni all’effimera epifania del poetico. Un enfant de toi é stato un regalo prezioso. Ringrazio, en passant, il Festival di Roma per avercelo offerto e mi auguro che il film possa trovare una distribuzione nelle sale italiane.