Anche quest’anno le migliori sorprese del Festival Internazionale del Film di Roma sembrano concentrarsi prevalentemente nella sezione collaterale Alice nella città, lo spazio a sé stante della mostra dedicato a quei film che affrontano tematiche legate all’universo giovanile, dall’infanzia all’adolescenza.
Baby Girl di Macdara Vallely racconta la storia di Lena, una quindicenne portoricana che vive il dramma dell’aver bruciato le tappe, del condurre un’esistenza sacrificata all’assunzione di responsabilità incongrue rispetto alla propria età a causa dell’assenza di figure genitoriali forti e di un ambiente esterno, costituito da false amicizie, invidie ed egoismo, percepito come estraneo e insidioso.
In un Bronx ormai multietnico Lena e sua madre Lucy incontrano per puro caso Victor, un ragazzo audace, anzi privo di scrupoli, che presto entrerà nelle loro vite come il giovane amante di Lucy, pur nutrendo da subito una chiara attrazione nei confronti della teenager. Costretta a occuparsi in prima persona del fratellino e a consolare le frustrazioni e le delusioni amorose della bella madre, molto frivola e affettivamente instabile, Lena erige nei confronti del corteggiatore George, suo coetaneo, un muro di fredda indifferenza mentre, sul piano confidenziale, l’unica amica, Daishan, è un alter ego sfrontato e individualista che sembra aver ritirato la patente per il mondo rinunciando precocemente a qualsiasi anelito di solidarietà e purezza. Confusa dalle avance sempre più insistenti di Victor, Lena escogita un piano per fare chiarezza dentro di sé e per allontanare il machiavellico seduttore da una mamma sempre più indifesa, innescando in questo modo, senza volerlo, alcune reazioni a catena che la obbligheranno a fare i conti con il proprio destino.
Seguendo le orme del corrispettivo genere letterario, Baby Girl, è un racconto di formazione che prende a cuore l’insicurezza e i rischi ai quali è esposta la tenera età prendendo spunto, in questo caso, da una situazione difficile ma allo stesso tempo abbastanza comune. Disegna rapporti interpersonali fondati sullo scambio dei ruoli – tra le due protagoniste è Lucy, in realtà, la vera figlia e non il contrario – e sull’ambiguità, come testimoniano le relazioni di Lena con l’altro sesso. Partendo da un soggetto molto lineare, una storia qualunque, ordinaria, per nulla originale, il film diventa una sorta di noir domestico che si tinge di atmosfere ambigue, di un erotismo un po’ malsano, a tratti morboso, nell’eventuale approdo di un menage a trois dalle conseguenze potenzialmente distruttive. Baby Girl esce dal quotidiano, si trasforma in racconto cinematografico attraverso la penna acuta di Vanessa Arce Senati che porta in superficie con i tempi giusti le anime dei suoi personaggi a loro modo disperati; e senza soluzione di continuità, dall’inizio alla fine, riusciamo a credere alla sincerità dei loro istinti, alla mutevolezza dei sentimenti, alle loro piccolezze. Anche la regia di Macdara Vallely concorre a trasmettere quest’impressione di inattesa verità: il ritmo delle inquadrature sembra seguire il metronomo dell’esistenza, fare appello a un’idea di stile connaturata alla dimensione del vivere quotidiano unitamente al minimalismo, in generale, della messa in scena. Straordinarie poi le performance dei tre attori principali: superba Yainis Ynoa, nella parte di un’anti Lolita, già profondamente segnata dal passato e dunque completamente disillusa, ma dura a morire; non da meno spiccano le interpretazioni di Rosa Arredondo e Flaco Navaja costretti in due ruoli decisamente anempatici. Opera amara, Baby Girl, nel descrivere la crudezza di un’infanzia negata; tanto quanto è sensibile, e delicata, nel modo di raccontarla.