Sorprende il debutto nel lungometraggio dell’attore, sceneggiatore e regista Paddy Considine, Tyrannosaur, presentato, dopo aver visitato diversi festival in giro per il mondo, nella sezione Focus del Festival di Roma, quest’anno dedicata alla Gran Bretagna. Sorprende per la sua forza dirompente, per la sua capacità di non far sconti a nessuno, per la sua ricerca, perfettamente riuscita, di evitare ogni facile concessione alla commozione.
Il magnifico Peter Mullan, migliore attore per My name is Joe di Ken Loach al Festival di Cannes 1998, è Joseph, un vedovo disoccupato e alcolizzato, violento e tormentato, che si trascina nella vita senza entusiasmo e con una rabbia esplosiva, che lo porta prima a uccidere accidentalmente il suo cane, poi a pestarsi a sangue nel locale di un pachistano. Trova rifugio nel negozio di Hannah, la Olivia Colman che lo stesso Considine aveva scelto come protagonista del cortometraggio Dog Altogether, vincitore del premio BAFTA 2008, una donna all’apparenza rasserenata dalla sua incrollabile fede in Dio, l’unica, come dirà lo stesso Joseph, “a sorridermi da queste parti”. Una fede incrollabile e un’armonia in cui la donna trova conforto per sopravvivere alle violenze fisiche e psicologiche del marito, che a un certo punto abbandonerà per affidarsi a Joseph. Ma non sarà facile, non sarà scontato, non sarà automatico. Non può esserlo perché quasi impossibile è liberarsi dai “tirannosauri” delle proprie esistenze. I tirannosauri distruggono tutto ciò che è intorno, lasciando segni indelebili. Alla fine i due riusciranno a trovare la loro via per “stare insieme”.
Tyrannosaur rappresenta quindi l’incontro/scontro di due anime perse, due anime che si riconoscono, si scrutano, si “odorano”, si allontanano perché specchiandosi negli occhi dell’altro sono costretti a guardare in faccia il proprio di dolore, ma si avvicinano irrimediabilmente perché trovano reciprocamente l’unica possibilità di tornare a dar un senso alla propria vita.
La regia segue asciutta e implacabile i due volti imperfetti dei protagonisti, indugia, senza morbosità, sui loro corpi segnati, li coglie nelle loro azioni più quotidiane e apparentemente banali, restituendoci due persone in carne ed ossa, in cui nulla viene concesso alla manipolazione cinematografica. Per questo il regista evita abilmente la creazione di due personaggi-specchio tout court: se, infatti, il personaggio di Hannah segue delle direttrici causa-effetto più evidenti e automatiche, che la condurranno a compiere un gesto estremo come reazione ai soprusi subiti, il dramma di Joseph avvolge e sconvolge lo spettatore in maniera più sottile, perché sembra aver a che fare più con una sorta di mal di vivere congenito, un tarlo che lo divora e lo costringe a dire che “non vorrebbe che sua moglie tornasse in vita”, sebbene ne sia stato innamoratissimo, perché, dice, “ritornerebbe a trattarla di nuovo come un cane”.
A far da sfondo a Joseph e Hannah, la grigia periferia inglese, animata da omuncoli gretti, violenza cieca e bieco razzismo, quei sobborghi in cui c’è tanto di già visto nei film di Ken Loach, e non è un caso che per quegli stessi sobborghi sia ancora una volta Peter Mulan ad aggirarsi. Quei luoghi che interessavano a Loach soprattutto da un punto di vista sociale e politico, qui sono ora a servizio di una storia che rimane sostanzialmente intima e rappresentano allo stesso tempo l’eco dello squallore delle vite dei protagonisti e l’humus naturale da cui si generano vite sbagliate. Se è vero però, come diceva De Andrè, che “dal letame nascono i fiori”, anche qui sono possibili squarci di umana solidarietà, come i canti e gli abbracci durante il funerale dell’amico di Joseph o il delicato rapporto tra lui e il piccolo Sam.
Tyrannosaur, alla fine della proiezione, lascia sul campo una storia potente, nella quale nessun finale definitivo è possibile, ma solo un delicato equilibrio precario. Lo spettatore ne esce sbigottito, e prepotentemente arricchito.