Rischiosissimo, e indubbiamente affascinante, è l’universo che il celebre documentarista James Marsh (premio Oscar per Man on Wire) indaga con il suo Project Nim, qui al Festival di Roma 2011 all’interno dell’amata sezione Extra curata da Mario Sesti. Riconosciuti gli innumerevoli ed interessanti quesiti, considerazioni e spunti che il documentario è in grado di infondere, si rende necessario mettere da parte le importanti suggestioni, sottrarle, per raggiungere il nocciolo dell’indagine ed accorgersi che il punto di vista del regista all’interno dell’universo indagato vacilla, è ambiguo, fatica a collocarsi, talvolta appare addirittura scorretto.
Nato nel 1973, il progetto Nim vede un cucciolo di scimpanzé al centro di uno studio scientifico volto ad indagare la capacità degli animali di apprendere il linguaggio dei segni per esprimere pensieri ed emozioni. Nim, questo il suo nome, viene affidato da Herbert Terrace, colui che ha dato il via al progetto, alla sua prima ‘madre adottiva’, Stephanie, una psicologa allieva del professore che cresce Nim all’interno della sua famiglia benestante e fricchettona secondo metodi hippie anni ’70: al cucciolo viene permesso di fare ciò che vuole senza sottoporlo ad alcun severo metodo scientifico conforme al progetto, motivo per cui Nim, in aggiunta ad un suo comportamento non proprio prossimo a quello umano, passerà nelle mani di varie ricercatrici e ricercatori, imparando alcuni segni e manifestando presto anche una certa dose di aggressività conforme alla sua natura. Dopo cinque anni a stretto contatto con gli umani, Nim termina il suo progetto e passerà a vivere con i suoi simili (in un laboratorio per esperimenti farmaceutici prima, in una riserva per animali maltrattati poi), trovando ogni volta qualche amico umano conquistato dalla sua capacità di utilizzare il linguaggio dei segni.
Si resta rapiti dalla storia, talvolta assurda, di questo primato vestito con maglietta e pantaloncini utilizzato per una non troppo rigorosa (così sembra, ma il documentario non approfondisce in tal senso) ricerca scientifica. Indubbia resta l’evidente difficoltà di tutti i ‘tutori’ di Nim nel comprendere ed evidenziare i reali scarti tra l’umano e il non umano; separare i reali punti in comune tra lo scimpanzé e la nostra specie dalle proiezioni antropomorfiche, da ciò che di umano si proietta su Nim senza alcuna certezza sulla reale presenza di simili caratteristiche nell’animale.Inquietanti gli interrogativi che Project Nim diffonde attraverso materiali e filmati d’archivio intervallati da interviste alle innumerevoli persone che hanno avuto a che fare con l’animale, tutte colte nelle loro rielaborazioni, commozioni, racconti, considerazioni, protagonisti comunque accomunati da una diffusa empatia e generico senso di colpa per un destino, quello di Nim, condizionato dalle implacabili differenze tra le due specie: tra esse prevale l’aggressività, quell’indomabile e istintiva caratteristica mal conciliante con il comune e ‘aggregativo’ vivere umano, discriminante che sarà decisivo per l’allontanamento di Nim una volta divenuto adulto.
Di là dagli assurdi aspetti di tutto il progetto che emergono attraverso una sapiente ricostruzione dei fatti, ciò che non torna è l’instabile e annebbiata posizione di James Marsh che sembra troppo frettolosamente distinguere i protagonisti tra buoni e cattivi basandosi prevalentemente sui rapporti affettivo-sentimentale dei vari ‘umani con lo scimpanzé, senza sentire troppo il bisogno di palesarci le reali motivazioni dei ricercatori. Messi da parte le vicende legate a Nim, quali sono i dati della ricerca? Perché il professor Herbert Terrace dichiara improvvisamente fallito l’esperimento affermando che il primate non è in grado di apprendere il linguaggio umano? Perché afferma che Nim utilizza i segni appresi unicamente come strumento per raggiungere ciò che vuole? Quali sono le rilevanze in proposito? Risposte che si rendono necessarie se lo stesso documentario sembra più di una volta dare presuntuosamente voce a Nim attribuendogli anche alcune sensibilità: come la capacità di provare sentimenti e persino di perdonare. Caratteristiche evidenziate più volte con alcune (e fuori luogo) sottolineature musicali che accompagnano i momenti di interazione tra Nim e i suoi ‘amici’ umani, suggerendo alcuni meccanismi psicologici del primate come la capacità di riconoscere un vero amico di cui fidarsi o, al contrario, di individuare chi l’ha abbandonato. Un passo falso che cerca di dare voce all’imperscrutabile ‘natura’ in un caso in cui essa (Nim) può rappresentare invece solo un fruttuoso specchio strumentale per meglio comprendere la ‘cultura’, tratto specificamente e unicamente umano.
Un documentario forse troppo pensato per il grande pubblico, che indubbiamente avvince, ma pone più di un dubbio nonostante il palese tentativo del regista di realizzare un’opera onesta in cui purtroppo irrompono inconsapevoli osservazioni animaliste che poco spazio lasciano ad una riflessione più coerente e precisa. Anche se ha tutte le caratteristiche per esserlo, quella di Nim non è un soggetto per un film di finzione e riteniamo che non sia questo il modo più prolifico per rapportarsi ad una ‘realtà’ che avrebbe invece bisogno di un maggiore sforzo verso una più lucida riflessione su di essa.