[***] – Quello di Marina Spada è un cinema che guarda (per stessa ammissione della regista) direttamente ad Antonioni, e sono appunto le immagini, più che le parole, l’inchiostro a cui la regista delega il fulcro della narrazione esistenziale della protagonista, Monica, interpretata da una convincente Claudia Gerini che pur risente, a tratti, di alcune défaillances dovute ad una presenza attoriale a volte poco domata all’interno delle ricercate inquadrature e dei misurati piano sequenza. Il mio domani resta una piacevolissima sorpresa italiana in Concorso a questa sesta edizione del Festival di Roma. Al suo terzo lungometraggio, la regista milanese focalizza ancora contemporanee solitudini evocate attraverso attimi sospesi, incorniciati e controllati da una macchina da presa che si chiede costantemente dove porsi, qualità non comune nel nostro attuale panorama cinematografico (e Il paese delle spose infelici di Mimmo Mezzapesa costituisce un ulteriore esempio in tal senso: un sorprendente esordio italiano, presentato sempre in Concorso).
Monica è una donna contemporanea cesellata tra insoddisfazioni che abbracciano molteplici sfere: sentimentale, professionale, affettivo – famigliare: una relazione insoddisfacente con un uomo già sposato, un padre isolato simbolo di rapporti famigliari difficili, un lavoro (formazione ai manager) di successo che cela tagli al personale e ristrutturazioni poco etiche da parte delle aziende; “una spruzzata di Chanel per nascondere la merda” come sentenzierà un dipendente. L’esistenza di Monica diventa a noi prossima senza apparire mai falsa, eccessivamente emblematica o troppo calata nell’Italia contemporanea. Il suo è un personaggio di più grande respiro che riesce a farsi strada tra le innumerevoli rappresentazioni “troppo italiane” a cui il nostro cinema ci ha abituati.
Sono i silenzi, e i superflui schivati, a fare di Il mio domani una pellicola, se non universale, quanto meno europea; ed è qui che si concentra tutta la piacevole sorpresa nella visione. Massima la cura delle ambientazioni e del quadro cinematografico: i personaggi sono calati all’interno di cornici altamente curate fatte di paesaggi e architetture, cieli grigi e interni essenziali, tutti elementi utili a quel racconto per immagini di cui la pellicola si nutre. Insieme creano uno spazio che rimarca la condizione esistenziale dei personaggi messi in scena: tutti avvolti da una solitudine mai realmente comunicata attraverso l’espressione verbale, ma evocata e percepita in un ‘quadro’ espressivo e formale che allude (e che in campo ci sia la Milano industriale o la provincia rurale, le evocazioni non mutano, ma sottendono la stessa solitudine). Personaggi in una tacita ricerca di relazioni svincolate da quella parte più alienante della contemporaneità che li contamina. Un vivere reciproco che sembra dare poche speranze e che offre solo dipendenze, inquinate intersezioni (“perché in fondo anche il gesto del dono sottende un rapporto di potere” come dirà la protagonista in una delle sue lezione per futuri manager).
Fa bene alla vista, e al cuore, lo ripetiamo, vedere un tocco così personale e rigoroso. E nell’entusiasmo si è disposti a indulgere nei confronti di qualche didascalia e simbolismo di troppo disseminato qua e là nell’incedere di questo racconto per immagini dal finale poco risolto. Rifiutato al Festival di Venezia, quello di Roma gode così degli interessanti frutti di Marina Spada, regista che ci auguriamo trovi presto i mezzi per un’ulteriore e prossima indagine.