Difficile porsi in modo lucido di fronte ad una pellicola come How to Die in Oregon, documentario dello statunitense Peter D. Richardson che avrebbe bisogno di almeno una seconda visione per poterlo affrontare al meglio in sede di riflessione, tanto è alto il grado di coinvolgimento emotivo che il film riesce a infondere con sconcertante partecipazione.
L’Oregon è uno stato in cui, grazie ad un referendum del 2004, è consentito il suicidio assistito, e da allora sono centinaia le persone che hanno usufruito di questa legge. Il requisito per ricorrere ad esso è di essere pazienti a cui è stato pronosticata un’aspettativa di vita non superiore ai sei mesi: essi possono così decidere di porre fine alla propria esistenza attraverso l’ingestione di una dose letale di medicinali.
How to Die in Oregon mette immediatamente lo spettatore di fronte a ciò di cui si occuperà il film e quali saranno i toni utilizzati: la telecamera è all’interno di una stanza dove un uomo, circondato da cari e famigliari, ha davanti una volontaria dell’organizzazione no profit Compassion&Choices. Questa, prima di passargli un bicchiere con la dose letale sciolta all’interno, porge le due domande di rito: è ciò che davvero vuoi? Sei cosciente di che effetti avrà la sostanza? Alle due risposte affermative il paziente ingurgita la dose ed entra in coma nell’arco di due minuti.Peter D. Richardson accantona quasi immediatamente, dopo una prima parte che sembra andare verso un’indagine più ‘politica’ della scottante questione, il dibattito sul pro e il contro eutanasia, per palesare subito da che parte protende: il diritto di poter decidere con dignità il momento in cui porre fine alla propria vita quando il viaggio ineluttabile verso la fine è prossimo e costellato da sofferenza e dolore. Attraverso testimonianze dirette di chi è in procinto di fare determinate scelte, How to Die in Oregon non risparmia nulla allo spettatore, messo così dinanzi ad una delle proiezioni più sconcertanti e dolorose di questo Festival di Roma 2011.
E’ essenzialmente il privato di alcuni malati terminali l’oggetto specifico e privilegiato del documentario, non i dibattiti politici e le lotte (pur presenti) che accompagnano inevitabilmente ogni discussione di questo tipo all’interno di uno stato. Con tipico pragmatismo statunitense Richardson sceglie di mettere da parte qualsiasi elucubrazione etica-politica-filosofica per andare al nocciolo della questione in maniera più diretta possibile: calarci nel punto di vista dei malati e dei loro famigliari per metterci dinanzi alla morte. Prendere o lasciare! E l’idea di abbandonare la proiezione balena più di una volta nel corso dei 107 minuti.Ogni persona intervistata (affetta da sclerosi, malata di cuore o con un cancro incurabile) ha già nel comodino il flacone con più di cento pillole da sciogliere in acqua, perché il suicidio assistito è legale, ma è lo stesso paziente che deve essere in grado di ingerire il cocktail fatale. Legalmente nessuno può aiutarlo, se non nella preparazione, ed è per questo che ciascuno decide di utilizzarlo prima che la sofferenza o la debilitazione fisica renda impossibile berne autonomamente il contenuto.
Nella seconda parte del documentario, tra i vari pazienti intervistati, How to Die in Oregon si concentra sulla toccante storia di Cody Curtis, 54 anni, una donna, moglie e madre di due figli, dal sorriso irresistibile, dolce e intelligente, bella, affabile, di una dignità disarmante: l’empatia è così molto alta. Cody ha un tumore al fegato già operato che ora è tornato a manifestarsi segnando inesorabilmente il conto alla rovescia verso una dolorosa morte. Anche lei ha già il flacone pronto nel suo comodino, le hanno pronosticato sei mesi, ne vive di più, ha già fatto una lista di cose da sistemare prima di lasciare questo mondo, la telecamere la segue per molte settimane e insiste su considerazioni, sensazioni, visite mediche, operazioni (inclusa la ripresa in sala operatoria), amici, speranze, accettazione serena della proprio destino seguita da lacrime che celano panico e sconforto. Difficile non immedesimarsi, calarsi in una cruciale e sconvolgente momento della vita come questo. Impossibile non chiedersi come ci sentiremmo in una simile circostanza, con tutto l’immenso smarrimento che ne consegue. Impossibile è anche non considerare che attraverso Cody il regista abbia scelto la strada più semplice, e ricattatoria, per pretendere la compassione e il coinvolgimento dello spettatore. Ma, al contrario, se l’obiettivo pragmatico era quello di farci calare nel contingente di là da ogni elucubrazione, How to Die i Oregon ottiene prepotentemente ciò che voleva e la visione, per quanto drammatica, dolorosa e difficile ci pone al cospetto della fine della vita in una duplice prospettiva: sovrapponendo empaticamente i nostri occhi sia con quelli della persona che ha la possibilità di scegliere una morte programmata; sia con quelli di tutti i famigliari e amici posti di fronte ad un caro che ha già deciso il tempo e il modo in cui si congederà definitivamente.
How to Die in Oregon, se in qualche momento sembra indugiare in maniera voyeuristica sullo smarrimento e sul baratro dei suoi protagonisti, messi al cospetto dell’insondabile fine della propria presenza nel mondo (e noi con loro); quasi poeticamente conclude con un fuori campo (lasciando dignità al privato), gli ultimi minuti di Cody: la camera inquadra dal giardino la finestra della stanza da letto, chiare sono solo le voci catturate da un microfono disposto all’interno, attraverso le tende intravediamo le ombre di famigliari e amici che danno l’ultimo saluto, Cody si conceda, piange, beve il medicinale, ‘ecco sta arrivando’ sono le sue ultime parole. In una società che rifiuta la morte, e il diritto di sceglierla, è inevitabile lasciare la sala in un reverenziale e smarrito silenzio.