ieri, 2 novembre, giorno dedicato ai cari estinti, una doppia delusione dall’estremo oriente, che del culto degli avi è una culla riconosciuta. Entrambi variamente dalle atmosfere horror, Inshite Miru – Nanokakan No Desu Gemu (The Incite Mill – 7 Day Death Game) del giapponese Nakata, e Bei Mian (Back), produzione Francia-Hong Konk e regista cinese Liu Binhjian, scomodano la memoria di “cadaveri illustri” per costruire narrative esili e superficiali.
Cominciamo dall’ultima fatica del regista seminale e poi campione d’incassi del (fu)neo-horror giapponese, Heido Nakata. Suo è quel Ringu che, spianando la strada a innumerevoli replicanti in patria e all’estero, rese popolare l’icona dell’inquietante ragazzina goth con lunghi capelli neri e lisci a nascondere il visetto diabolico, spettro condannato a vendicarsi in eterno per le malvagità subite. Il bel remake statunitense con Naomi Watts consacrò la saga, attirando l’attenzione sul sopravvalutato prototipo di Nakata, e scatenando la nippo-horror mania su scala globale. Mi attirerò di sicuro le maledizioni di schiere di fan del regista giapponese, ma l’idea che fosse un bluff ben confezionato mi frullava per la testa già da allora. In Inshite Miru, il cadavere eccellente chiamato in causa è quello di Agatha Christie, per un'ennesima rilettura del suo Ten Little Indians (in realtà erano niggers nella prima stesura, ma qualche editore lungimirante aveva presagito guai con la crescente sensibilità al politically correct). Qui, al posto del consueto invito a cena con delitto, si tenta una rilettura dello schema originale, a metà strada tra il format di un reality-show dai risvolti snuff e un racconto sci-fi a basso costo. Un gruppo variegato di donne e uomini di diverse età, decide di accettare una misteriosa offerta di lavoro, allettati dalla promessa di una retribuzione smisurata. In realtà parteciperanno come cavie a un esperimento di natura psico-sociale, sorvegliati 24 ore al giorno da telecamere a circuito chiuso. Ignari di ciò che li aspetta, vengono condotti in una località remota, rinchiusi in una casa bunker da cui non è possibile fuggire e messi gli uni contro gli altri in un estenuante cluedo vivente, un gioco al massacro con tanto di punizioni inflitte dalla guardia-robot e bonus che fanno alzare i montepremi personali dei detective, degli assassini, e persino delle vittime.
Capite bene che, per reggere il confronto con uno qualsiasi degli innumerevoli modelli ispiratori (The Game, la serie Cube, 13 Tzameti, Battle Royale del vecchio maestro Fukasaku, solo per citare i primi che ci vengono in mente) sarebbe stato necessario uno scarto d’inventiva, che in 7 Day Death Game invece manca completamente. Come estrema risorsa per salvarsi la faccia, ci si poteva buttare sull’umorismo demenziale e l’ironia, inondando il film di deliri citazionismi, con schizzi di ultraviolenza splatter. Poi a ben guardare, anche il sottinteso di partenza, legato all’attualità politica, aveva una certa potenzialità simbolica: un paese come il Giappone che non aveva mai sperimentato la disoccupazione di massa e in cui gli individui s’identificano tradizionalmente con il proprio ruolo produttivo e con gli obiettivi della Corporation, si trova improvvisamente trascinato in una recessione senza precedenti. Macché! Lungi da ogni intento vagamente auto-ironico, Nakata arriva a intorpidire le sinapsi dello spettatore, riuscendo a essere serioso e pretenzioso senza azzardarsi mai in vere riflessioni. Oscillando indeciso tra parabola filosofica e fanta-politica, tra thriller claustrofobico in stile yankee e giallo tradizionale basato sulla dissemina d’indizi, tra splatter-gore e reality tv, il film non decolla, avvitandosi pigramente su se stesso, producendo noia e disagio persino nello spettatore meno scaltro. Assistere a 7 Day Death Game è un'esperienza deprimente come essere costretti a riguardare un brutto film che si é già visto almeno un milione di volte, composto com’è dal susseguirsi di una serie di triti clichés narrativi, con una regia didascalica in sciatto stile televisivo, e dialoghi sovrabbondanti che figurerebbero già troppo naif in un fumetto per bambini. L’attenzione maniacale alle invenzioni scenografiche, qualche trovata riuscita qua e là, come quella del robot-guardiano, che con il suo look incredibile da aspirapolvere anni ’60, ammicca a una certa fantascienza lo-fi, e pochi fiacchi e prevedibili colpi di scena, non bastano a salvare il film di Nakata dal meritato oblio. Al maestro giapponese consigliamo di tornare ad attingere al repertorio così ricco di motivi narrativi e iconografici della sua mirabolante tradizione nazionale, piuttosto che contraffare incubi e ossessioni made in occidente.
Se nel Giappone in crisi economica e a corto d’idee, il fanta-horror segna il passo, le cose non vanno un granché meglio nella Cina trionfante del socialismo di mercato quando, per venire a patti con il fantasma del Grande Timoniere e di quell’ingombrante, controverso, articolato ciclo storico che va sotto il nome di Rivoluzione Culturale, si tenta la strada forzatamente ideologica della rilettura in chiave grottesca con venature di horror psicologico. Il protagonista di Bei Mian è un quarantenne fallito, incapace di lasciarsi andare e vivere una vita affettiva appagante. L’uomo è inseguito da un passato che lo tormenta e sembra custodire un terribile segreto. Attraverso una serie di flash back veniamo trascinati nelle pieghe più oscure dei suoi ricordi infantili ai tempi della Rivoluzione Culturale, quando il padre, un incisore devoto alla causa maoista e ossessionato dalle ’immagini del Presidente, si divideva tra l’allestimento di dazebao rivoluzionari, e sadiche sessioni di tattooing sulle schiene dei suoi famigliari. L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica, in forma d’incubo totalitario; una proposta tematica sicuramente originale, condensata intorno a una vicenda estrema e stravagante.
Un regista intellettuale, che sa usare di certo gli strumenti del mestiere, distillando uno stile asciutto e nervoso e un’indubbia forza visionaria, ma che purtroppo rimane intrappolato in un consolatorio fervore ideologico a tutto spregio della complessità della Storia del proprio Paese e degli slanci sinceramente utopistici di tanti giovani rivoluzionari cinesi. Una condanna del dogmatismo che, nella semplificazione dei processi storici e nella unidimensionalità dei personaggi coinvolti, con la netta e univoca ripartizione di ragioni e responsabilità, fa torto innanzi tutto a una reale aspirazione critica anti-dogmatica. Per inquadrare la vicenda va detto che nella Cina di oggi, che pur sembra essersi lasciata alle spalle i furori rivoluzionari e il culto della personalità, i memorabilia della propaganda maoista invadono il paese attirando schiere di estimatori. Collezionisti antiquari, turisti, nostalgici e giovani simpatizzanti si contendono le opere autentiche ancora in circolazione e il mercato della contraffazione è fiorente. L’immagine di Mao, domina ancora saldamente la Porta della Pace Celeste (Tiānānmén) ed è l’effigie di uno Yuan (la moneta nazionale) in irresistibile ascesa. Una pletora di t-shirt, busti, statuette, manifesti, gadget svar
iati e opere di artisti contemporanei raffiguranti versioni classiche o rivisitate del vecchio presidente invade le bancarelle, i negozi di souvenir, le gallerie d’arte dei quartieri alla moda di Beijing e Shanghai. Mao, trasformato oggi in irresistibile icona pop, svuotato in gran parte di precisi riferimenti ideologici, rimane a rappresentare per la stragrande maggioranza dei cinesi l’unità, l’orgoglio nazionale, la continuità nel cambiamento; soprattutto è il Padre della Patria moderna, e proprio in questa veste di grande patriarca sta tutta la problematicità della sua strabiliante forza iconica.
Alla luce di quanto detto, tornando al film, potremmo azzardare una lettura convenzionalmente freudiana, con un ciclopico complesso d’Edipo irrisolto che, da dramma individuale, diventa trauma collettivo, in un letale gioco di specchi dove le immagini del Padre si riflettono e si moltiplicano fino al disgusto. Ne deriva il crollo psichico del protagonista, la sua incapacità quasi autistica di interpretare le immagini, circoscrivendo un campo semantico in cui la realtà esterna e l’esistenza soggettiva possano riacquistare un senso nuovo, consentendo all’orologio della Storia e delle miliardi di storie cinesi di riprendere la loro Lunga Marcia.