Il film potrebbe essere facilmente inscritto in un registro di genere. È infatti un dramma che si svolge in una famiglia della middle class americana, anglosassone naturalmente, e newyorchese, un concentrato di felicità e intelligenza. La coppia è nel pieno della capacità intellettuale e produttiva, con un passato di duro lavoro (lui è un medico affermato e lei una linguista di fama internazionale), tre splendidi figli cresciuti nella sana atmosfera di una famiglia unita e con le giuste contraddizioni che ci devono essere tra di loro. La più piccola, la più ribelle e creativa – una bella e intensa Kristen Stewart – è a Los Angeles a cercare di vivere il teatro nelle forme tipiche della sua età e della sua forte sensibilità. Una autentica famiglia borghese insomma, che crede nei suoi valori e nel lavoro, e da essi trae sostegno per costruire una vita che dovrà svolgersi all’infinito tra agi, sicurezze e bei ricordi.
È proprio nella interruzione della catena dei ricordi, anzi nella loro inversione, nella distruzione di questa solida montagna di senso che comincia a manifestarsi l’angelo sterminatore, l’orrore nella sua forma più terribile: il morbo precoce di Alzheimer.
La malattia è di quelle che non si vorrebbero nemmeno nominare, è un qualche cosa che non ha a che fare con la vita, e nemmeno con la morte, è semplicemente qualcosa di inconcepibile, simile ad un fardello di dolore che il buon Dio dispensa talvolta a casaccio, per ricordarci che la felicità non è di questo mondo.
Chi ne ha avuto esperienza sa che delle persone talvolta bellissime, che hanno avuto un significato determinante nella costruzione della nostra catena di ricordi, sono ridotte a un informe involucro vivente per lunghissimi anni, con piccolissimi sprazzi di umanità elargiti da occhi opachi che esprimono solo sofferenza senza più la capacità di determinarsi a terminarla. Il morbo di Alzheimer è veramente terribile. E la cosa più terribile, forse, è che le relazioni umane regrediscono anch’esse tanto da trovare spesso –non sempre- forme di rapporti simili a quelli di incombenze fastidiose che bisogna quotidianamente assolvere ma delle quali si vorrebbe tanto farne a meno, che si vorrebbe rimuovere.
Sembra proprio che il regista ne abbia avuto una esperienza diretta, perché è quasi inconcepibile che abbia potuto trattare questo tema in un modo così coinvolgente, diciamo così “da tecnico”, “da esterno” .
Dunque il film è ad effetto, incisivo e preciso, un colpo duro che indubbiamente lascia il segno e ti fa alzare dalla sedia con un senso di smarrimento – tutto all’opposto di altri film che, lasciata la sala, ti fanno pensare che sì, è terribile, ma anche che meno male che ora si torna alla vita “normale”.
Perché non è così? Perché continuiamo a riflettere sul significato del film e dei suoi effetti sulla nostra sfera emotiva? Per due motivi direi, molto forti e evidenti.
Il primo è la straordinaria capacità performativa di Julianne Moore, sulla quale in questa rivista si è detto molto, cfr. Fabrizio Croce Julianne Moore dei pirati – la terra, il fuoco, le stelle. Cito: È la fautrice, la fattucchiera, la caotica disturbatrice dell’armonia è lei, Julianne Moore, capelli rossi e carnagione bianca venata di rughe e smagliature. Fa la parte che, alla sua età, siamo oltre i cinquanta, offrono più frequentemente alle attrici, ovvero quella de la Madre, liberata però dalla funzione archetipica di grande ventre che accoglie, rassicura, si sacrifica sull’altare del focolare domestico. La madre della Moore ha slanci di generosa vitalità ma è anche improvvisamente e inaspettatamente implosa, infantile e ferita, oppressiva e sfuggente. Difficile dire meglio e di più.
Julianne è sicura e spigliata nel suo ruolo accademico, affettuosa e preoccupata in quello di madre, tranquilla e rilassata in quello di moglie, ma già l’inquietudine è offerta dalla sua bocca semi-schiusa in un sorriso indefinito e dai suoi sguardi sfuggenti. È lei l’alieno che seminerà la distruzione, il fiume che si dovrà attraversare per giungere nelle terre dell’indefinito, della morte sospesa, dell’incomprensibile, che metterà in scena il drammatico conflitto tra la ragione e la morte.
Ed è proprio nella preparazione della sua morte e nell’impossibilità di raggiungerla nel palcoscenico della vita, quando le forme si dissolvono e si ricompongono in caleidoscopicici frammenti di luce di forme e di sensazioni che il film raggiunge l’apice.
Il secondo motivo è offerto dalla forza della poesia, che sola si contrappone, con la capacità di cogliere l’instante e gli attimi di significato racchiusi negli eventi, all’entropia che tutto redistribuisce senza nulla creare e nulla distruggere, l’assenza della morte appunto.
La figlia minore offre la sponda di un rapporto nuovamente ricercato, attraverso questi attimi di contatto intenso intrisi di empatia e di umanità, laddove tutto lasciava intravedere il trionfo del rimosso, dell’obliato. Kristen Stewart rappresenta questo ruolo con perfetta semplicità e assenza di pathos epico, ma con una efficacia penetrante e potenza disincantata, davvero brava.