Che il Festival del Cinema di Roma, alla sua seconda edizione, non potesse competere in quanto a prestigio con i suoi blasonati fratelli di Berlino, Venezia e Cannes, era cosa chiara a tutti. La scelta di spaziare dai grandi film hollywoodiani alle proiezioni indipendenti, passando per retrospettive, omaggi ai grandi del passato e film per ragazzi, ha poi sicuramente impedito alla giovane creatura di imporsi con un carattere ben definito e originale. Nonostante ciò questa seconda edizione ha raccolto un notevole successo al botteghino.
E non ce ne vogliano i nuovi futuristi italiani, del futuro colorati promotori, che con la loro eclatante e spettacolare azione alla Fontana di Trevi hanno voluto contestare l'amministrazione capitolina e l'inutilità del festival, composto – così recitava il volantino di rivendicazione – da “quattro cortigiane, una vecchia gallinaccia e un puffo”. E' vero che una manifestazione del genere non risolve gli innumerevoli problemi di una città, ma è altrettanto vero che è sempre meglio averla piuttosto che recriminare sulla mancanza di iniziative culturali.
Detto questo bisogna aggiungere che la strutturazione della Festa Internazionale del Cinema non ha aggiunto nulla al panorama cinematografico già esistente in Europa. Le sfilate di Francis Ford Coppola, della Loren, di Brad Pitt e di Monica Bellucci su un red carpet sobriamente addobbato con una installazione floreale dell'artista tailandese Sakul Intakul, hanno poco a che vedere con il cinema, almeno a parere mio. Una parata di celebrità meno appariscente avrebbe forse dato qualcosa in più a questa kermesse romana. Invece siamo qui a commentare la copia sbiadita e un po’ artificiosa di un blasonato evento.
Diverso è il discorso se ci si limita a scappare veloci nelle sale di proiezione, senza prestare attenzione alle ragazze della Coca Cola vestite di bianco che offrono assaggi light della famigerata bevanda, agli stand deserti che nessuno capisce a beneficio di chi siano stati allestiti, alla sfilata indecorosa di quelli che sembrava stessero andando ad un ballo dell'alta società anziché a vedere un film. Se poi si guarda esclusivamente a quella che, probabilmente, è l'unica sezione del Festival che ha provato a mostrare qualcosa di diverso e di originale, qualcosa che probabilmente, al contrario delle pellicole in concorso, non vedrà la luce nelle sale italiane, allora il giudizio può anche essere positivo.
Lavori come The Unforeseen, The Universe of Keith Haring, Dr. Plonk e Children presentati nella sezione Extra, meritano sicuramente il prezzo del biglietto e anche la sopportazione di tutto il fashion victim del contorno.
The Unforeseen di Laura Dunn è un documentario intelligente sul conflitto mai risolto tra sviluppo e sostenibilità ambientale. Indagando su una vicenda avvenuta nella cittadina di Austin in Texas, la giovane filmmaker ha messo in luce tutti i limiti del progresso, almeno di quello fine a se stesso, che ha nel profitto e nella crescita di movimenti di capitale gli unici parametri di giudizio. È la storia di un imprenditore locale, Gary Bradley, che, sfruttando il boom edilizio degli anni '70 trasforma i dintorni della tranquilla cittadina in mega aree residenziali, sacrificando gran parte del patrimonio ambientale. Sommerso dai debiti, l'imprenditore texano dà il via, anni dopo, a un uovo progetto di area residenziale da edificare nei dintorni di Barton Springs, le meravigliose piscine naturali dove si sono bagnate generazioni di americani. Per combattere la cementificazione selvaggia della preziosa area la comunità reagisce e, con una partecipazione diretta all'assemblea dell'amministrazione locale, riesce a fermare i lavori.
È una grande vittoria che segna la nascita del movimento ambientalista americano che coinvolge trasversalmente gran parte dei cittadini, fatta eccezione per i proprietari terrieri che vedono sfumare la possibilità di arricchirsi con le lottizzazioni de terreni. A dar manforte a questi ultimi, interverrà di lì a qualche anno il governatore del Texas. È infatti il solito George W. Bush a promulgare una legge che autorizza le compagnie interessate, coinvolte per milioni di dollari, a dare il via al progetto.
Ancora una volta Bush si fa alfiere dei diritti commerciali delle grandi imprese e delle banche finanziatrici. È un'altra vittoria del capitalismo selvaggio, dello sviluppo inteso esclusivamente nei termini di crescita economica. È l'ennesima esaltazione della proprietà privata e dell'insindacabile diritto di sfruttarla da chi ne è formalmente proprietario. Diritto che si trasforma sempre in business. Poco importa che, come mostra Laura Dunn, l'inquinamento della Edward Aquifer porterà disagi non solo a coloro che vedevano in Barton Spring un'oasi naturale dove ricaricare un corpo martoriato dai serrati ritmi dell'american way of life, ma anche ai contadini e a coloro che usavano quella sorgente per irrigare i campi. In molte sequenze, che ritraggono prima lo spettacolo naturale offerto da Barton Springs poi le violenze che lo sviluppo vi esercita sopra, sembra emergere la mano del maestro Malick, il suo indugiare su dettagli del paesaggio, ora liberi dalla mano opprimente dell'uomo, ora da questo depredato e mortificato. È l'altra faccia del sogno americano. Quella cinica e arrogante delle lobby economiche e finanziarie più importanti del paese che, grazie a interventi su misura del governo, riescono ad aumentare il volume dei loro affari.
Laura Dunn ci racconta una storia dal sapore amaro, quella di una trentennale lotta condotta ad armi impari, una lotta che vede ancora una volta calpestato il diritto ad uno sviluppo sostenibile a favore di uno cieco dinanzi ai bisogni più elementari di una comunità di cittadini: quelli di aria e acqua pulita.
Il film nasce da un'idea di Terrence Malick che non solo lo ha prodotto insieme a Robert Redford, ma ha agito da vero e proprio mentore per la giovane regista, già autrice di un lavoro sui disastri ambientali combinati dalla aziende petrolchimiche lungo il Mississipi (Green, 2000).
Pur essendo un documentario di denuncia The Unforeseen non calca la mano sui protagonisti negativi, ma getta su di loro uno sguardo lucido e obiettivo. Dal lavoro della Dunn emerge in tutta la sua umanità anche l'imprenditore Gary Bradley, in lacrime alla fine del film per la sentenza di fallimento contro la sua società.
The Universe of Keith Haring, di Christina Clausen, ci accompagna in un bellissimo viaggio nella New York degli anni '80, tra esplosioni di street art, party allucinanti, atelier lussosi, droghe ed eccessi di ogni genere. Seguendo la vita di Keith non partecipiamo soltanto alla crescita e alla maturazione della sua sensibilità artistica, ma veniamo portati al cospetto di un'intera epoca dall'enorme carica creativa, quella di Andy Wharol e di Basquiat. Anni nei quali l'arte, grazie soprattutto all'attivismo di Haring, esce dai musei ed entra prepotentemente nelle strade e tra la gente comune che solca i lunghi corridoi delle metropolitane. Christina Clausen raccoglie una
grande quantità di materiale appoggiandosi molto sulla Keith Haring Foundation. Ne esce un documentario dal ritmo frenetico che segue la forsennata produzione del giovane artista, dagli inizi, nella sua cittadina di Kutztown in Pensylvania, fino alla sua consacrazione newyorkese. Seguiamo Haring in tutta la sua parabola e siamo partecipi della sua voglia di raggiungere quante più persone possibili, desiderio che lo porta a viaggiare in tutto il mondo: Europa, Sud America e Asia. Ovunque Keith non si limita a fare apparizioni in musei o in atelier, a vendere opere e contattare galleristi, ma scende nelle strade e semina dipinti e graffiti su muri, palazzi, automobili e ogni sorta di superficie disegnabile. I suoi “omini” raggiungono ogni parte del mondo e ogni persona. Ma è soprattutto con i bambini che l'artista si sente più a suo agio perché dalla loro purezza può nascere la vera arte, quella non inquinata e non contaminata da manipolazioni sociali.
Memorabili e inedite le scene dell'esibizione di una giovanissima e ancora sconosciuta Madonna, ospite di uno dei party organizzati per il compleanno di Haring al Paradise Garage, e ancora la performance di Grace Jones con il corpo decorato di pennellate.
La Clausen ci racconta gli amori, l'omosessualità, la vena critica di uno dei più amati artisti del nostro secolo che, a dispetto delle stravaganze, ci appare sempre con il volto di un bambino occhialuto e coraggioso. Assistiamo alla sua lotta contro l'indifferenza del governo e delle istituzioni americane che ignorano il dilagare dell'Aids, la peste che inizia in quegli anni a uccidere molti giovani, all'impegno contro l'intolleranza e la discriminazione ai danni degli omosessuali. Il giovane artista emerge anche dalle testimonianze dei suoi migliori amici, come i galleristi Hans Mayer e Tony Shafrazi, una sempre buffa Yoko Ono, e ancora David LaChapelle, Kenny Scharf, il coreografo Bill T. Jones e il Dj Junior Vasquez.
Sono loro, e la famiglia Haring, che commossi raccontano le gioie e i dolori di Keith, i suoi successi, le stravaganze e infine l'orrenda malattia che lo portò, giovanissimo, alla morte.